mercoledì 31 ottobre 2018

'U sciùghe d'a morte

In questi giorni commemoriamo i defunti e con loro ripensiamo all'unica certezza della vita: la morte.
Nessuno sa cosa ci riserba la vita ma una cosa è sicura già da quando nasciamo... che un giorno moriremo, nessuno sa dove, come, quando e perchè ma moriremo.
Nonostante questa consapevolezza, sfuggiamo sempre l'idea della morte e, quandanche annunciata, ci ritroviamo a sperare nell'errore in una diagnosi infausta o a credere nel miracolo di guarigione, perchè c'è qualcosa che fa più paura della morte, la sofferenza e il dolore che consuma il corpo, offusca la mente e avvilisce lo spirito, tanto da indurre ad invocare la morte, unica liberatrice.

Nella tradizione popolare la lunga agonia era considerata l'espiazione dei peccati commessi in vita dal moribondo, peccati gravi e non confessati che imprigionavano l'anima impedendole di liberarsi; tra questi, oltre i peccati stigmatizzati dalla religione cattolica vi era quello di aver, consapevolmente o meno, bruciato 'u sciùgo, il giogo, quel pezzo di legno che legato ai buoi permetteva di trainare i carri e arare la terra per poterla poi seminare.
Un oggetto la cui sacralità scaturiva dall'importanza che aveva nell'economia contadina.

Un semplice pezzo di legno che quando si logorava e non poteva essere più utilizzato per il lavoro nei campi, doveva essere abbandonato e lasciato a marcire, per nessun motivo doveva essere distrutto, neanche se era l'unico pezzo di legno da poter bruciare per riscaldarsi durante l'inverno. Si credeva infatti che la distruzione di un giogo portasse la maledizione di donare l'immortalità ma non la salute, per cui chi lo distruggeva era destinato a sopravvivere alle malattie consumandosi nel dolore.
'U sciùghe, un oggetto ambivalente: sacro se usato, maledetto se distrutto... ma non solo, è veleno e antidoto della sua stessa maledizione...

La lunga agonia del moribondo portava i parenti a chiamare il prete per l'Unzione dei malati, una volta detta Estrema unzione, proprio perchè fatta a malati agonizzanti prima di spirare.
Il prete si recava a casa del moribondo accompagnato da un chierichetto che durante il tragitto suonava un campanellino per invitare tutti a pregare per una persona che stava per lasciare questo mondo.
La preghiera recitata era:



Quando il prete entrava in casa del moribondo, i presenti invocavano così le anime dei sacerdoti:














Se dopo tre giorni l'agonia continuava ancora, era segno che il moribondo aveva la maledizione d'u sciùghe e per scioglierla sapete cosa occorreva?... nu sciùghe!!!
Si, bisognava mettere un giogo sotto il cuscino del moribondo poi si accendeva una candela pronunciando la frase:
 'a Luce de Ddije pe idde e ppe' l'aneme sande d'u Priatòrie
e si aspettava, pregando per la sua anima, finchè non esalava l'ultimo respiro.
E 'a senzanàse arrivava a prendersi quell'anima finalmente libera.

domenica 14 gennaio 2018

Le due facce della vittoria

Un vecchio detto recita: Non c'è lutto senza riso nè matrimonio senza pianto - sottolinea la tragicomicità della vita. Felicità e tristezza percorrono a braccetto la nostra vita, ci aiutano ad affrontare le gioie e i dolori, le sconfitte e le vittorie.

Molti artisti si sono espressi in proposito regalandoci opere bellissime, come questi due bronzi esposti al Museo Nazionale Romano: il principe ellenistico e il pugile in riposo, due vittoriose facce di bronzo di cui voglio raccontare.



Furono rinvenuti insieme a Roma nel marzo del 1885,  nelle fondazioni dell’ex Convento di San Silvestro al Quirinale, in prossimità delle Terme di Costantino, durante  i lavori per la costruzione del Teatro Drammatico Nazionale.

Il Principe e il pugile, due bronzi di fattura ellenistica attribuibili a Lisippo o comunque alla sua scuola. 
Trovati insieme ed esposti insieme,  entrambi vincitori immortalati nella posa " a riposo" dopo essere stati protagonisti di una dura battaglia.

Il principe ellenistico - 
è la statua bronzea di un giovane nudo, in posa eroica di riposo, appoggiato a un'asta che ha sostituito la lancia originaria, che non è stata ritrovata, così come la corona che probabilmente aveva sul capo, assenza che gli è costata la carica di Re, relegandolo a quella di principe.
Alcuni ritengono che sia il ritratto di Attalo Filadelfo, re di Pergamo,
altri di un generale romano, Quinto Cecilio Metello Macedonico, ritratto al ritorno dalla vittoria contro i macedoni.



Il pugilatore in riposo - una statua in bronzo di 128 centimentri raffigurante un pugile, grande e muscoloso  subito dopo un combattimento.

Le mani a riposo, ma ancora protette dai caestus, fasce di cuoio rigido imbottite di lana, tenute insieme da borchie metalliche, un'arma infallibile per procurare ematomi, ferite e fratture. 

 









Il viso deturpato dalle cicatrici e dalle fratture subite durante gli scontri ma con barba e capelli ben curati che denotano il suo ceto sociale e la sua dignità di atleta.

La testa è girata verso destra e protesa verso l'alto come per tendere l'orecchio per carpire il verdetto dei giudici.

L'ipotesi più accreditata identifica in questo bronzo Mys, atleta pugile tarantino.
Era un ragazzo di nobili origini e dal fisico imponente, forza e coraggio non gli mancavano,  ma la fortuna si.
Passò  la sua giovinezza collezionando sconfitte. Nella sua carriera di pugile partecipò ad ogni competizione senza riuscire a vincere un solo incontro, fino a quando nel 336 a.C., alla rispettabile età di 40 anni, partecipò ai giochi di Olimpia e inaspettatamente vinse.

Lo scultore Lisippo, decise di immortalare quella vittoria, in un'opera che fu esposta nell'agorà di Taranto, fino a quando, nel 272 a.C. i romani non la portarono a Roma come bottino di guerra.

La vittoria di Mys a Olimpia fu talmente importante che ancora oggi si usa l'espressione:
fare come Mys a Olimpia  
per sottolineare un riscontro positivo ottenuto quando ormai si è persa ogni speranza.

La statua del pugile in riposo ha fatto il giro del mondo e con lei la storia di Mys la cui tenacia rimane ancora oggi un esempio per tutti. 
Una perseveranza esemplare che, oltre l'olimpiade gli ha fatto vincere la sfida più importante, quella contro il tempo.













venerdì 5 gennaio 2018

Il giorno delle cazètte



Oggi è l'Epifania un giorno importante, dei  doni e delle caramelle,  della cenere e del carbone, il giorno dei buoni o cattivi e a deciderlo è la Befana o meglio le sue calze, le cazètte.

Sin da quando hanno cominciato a far parte del nostro abbigliamento le calze hanno sempre fatto la differenza, quella tra ricchi e poveri.
Intorno al diciassettesimo secolo, quando nell'aristocrazia spagnola si diffuse la moda di indossare lunghe calze di seta che fasciavano e abbellivano le gambe.
Ben presto la curiosità e la voglia di indossare le calze contagiò le donne della media e piccola borghesia, che però non potevano permettersele.
Fu cosí che  a quanto pare, l'ingegno Napoletano inventò le "mezze calze", ossia calze che  avevano solo la parte inferiore in seta e il resto era di semplice cotone, che, però,  restava nascosto nella lunghezza delle gonne. Queste calze erano molto piú accessibili e potevano soddisfare il vezzo di tutti, ma l'aristocrazia non approvò la vanità della borghesia che voleva apparire quello che non era definendoli sprezzantemente  " mezze calzette ", espressione che ancora oggi indica metaforicamente persone presuntuose e arroganti di scarso valore e competenza.
Ma l'inconveniente per chi indossava le mezze calze non era solo questo.

Mentre le calze di seta ederivano perfettamente rimanendo ben adese alle gambe, le mezze calze avevano la parte superiore, di cotone, che tendeva a scendere, costringendo chi le indossava a tirarle su continuamente. I borghesi trasformarono quel gesto necessario in un vezzo che gli permetteva di darsi delle arie, di mantenere le distanze, di farsi pregare eccessivamente prima di cedere alle richieste fatte loro dal popolino che, di contro, li additava dicendo: Vìde vì, come se tire a cazètte!
 
Oggi anche se le gonne si sono accorciate le mezze calzette ci sono ancora, anzi, sono aumentate e continuiamo a tirarcele.
Buona Befana a tutti!