martedì 27 gennaio 2015

Il campo "S" di Taranto

L' armistizio dell'8 settembre 1943 sembrò quiete dopo la tempesta di una guerra che aveva portato l'Italia allo stremo. In realtà fu un momento di grande confusione dei soldati che combattevano una guerra senza aver capito con chi, contro chi e soprattutto perchè.
I soldati italiani avevano combattuto per la “Patria” e non sapevano più di chi fidarsi, volevano solo tornare a casa, ma neanche questo  era possibile - alcuni scapparono ma vennero presi e portai nei campi di prigionia.
Molti lo ignorano ma anche a Taranto c'erano questi campi.
Il più grande era il Campo di S. Andrea - detto campo  "S" -  presso la masseria Sant'Andrea, da cui prende il nome,  altri campi erano confinanti con la masseria Cavallo e la masseria Santa Teresa, a Rondinella,  San Giorgio Jonico e Montemesola.
I campi erano contraddistinti da una lettera, il campo "S" era per i prigionieri generici. 
Il Campo «T» era destinato ai reduci dall’Oriente e dalla Gran Bretagna; il Campo «R» per i recalcitranti, la categoria che comprendeva coloro che erano appartenuti a formazioni di SS e di polizia, componenti delle Brigate Nere, della Legione “Muti”, della X Flottiglia MAS, del reggimento paracadutisti “Folgore”.
Nei pressi dell'area dell'aviazione militare di Grottaglie era sistemato un campo di tedeschi.
I campi di prigionia tarantini, retti sin dagli ultimi mesi del 1945 dal comando alleato, accolsero circa diecimila prigionieri di guerra, costretti a vivere in tende malconce, senza servizi igienici, senza cibo sufficiente, senza letti. Molti morirono. I più tornarono però a casa, quando gli inglesi decisero di abbandonare la custodia del campo e i comandi italiani non accettarono di mantenere i connazionali rinchiusi in quel campo, definito, dai giornali del tempo "Il campo della fame".

















Il campo “S” che, sotto il controllo britannico, ha visto il prolungamento della prigionia di quanti non avevano accettato il compromesso della cooperazione e che, per questo, subirono una carcerazione abusiva in condizioni di estrema indigenza.
Erano italiani e stranieri  che avevano combattuto sotto il regime fascista, arrivavano dal campo di Afragola, stivati nei carri di bestiame, a loro si aggiunsero, pochi giorni dopo, quelli che arrivavano dal campo di Algeri, già prostrati da diversi mesi di prigionia in Africa, e che in un primo momento erano stati animati dalla convinzione di tornare finalmente in patria, dopo otto anni di assenza, e riabbracciare le proprie famiglie e la comodità delle proprie case. Ed invece quei ragazzi tornarono sì in Italia, ma ad attenderli c’era un nuovo campo di concentramento, dove furono costretti ad aspettare la liberazione ancora per qualche mese.

In particolare il Campo “S” era suddiviso in dieci grandi recinti denominati “Pens” ( pollai), e circondato esternamente da una doppia recinzione di filo spinato.
Tra le due reti scorreva un camminamento, dove spesso si avventuravano i familiari dei prigionieri e i tarantini di buon cuore per lanciare, al di là della recinzione, generi alimentari e indumenti che potessero essere di conforto a quegli uomini fortemente provati.
La chiesa tarantina, grazie al diretto impegno dell'Arcivescovo Mons. Ferdinando Bernardi e del suo vicario generale Mons. Guglielmo Motolese, immediatamente si adoperò in una straordinaria opera caritatevole a favore dei prigionieri che impegnò tutte le parrocchie della diocesi. Don Celestino Semeraro, parroco di Fragagnano, si prodigò affinché le speranze di libertà dei prigionieri si trasformassero in realtà.
Il 10 marzo 1946, l'Arcivescovo Bernardi accompagnato da tre sacerdoti tra cui il suo vicario generale mons. Motolese, riuscì ad entrare nel campo, dove fu accompagnato ad uno steccato sistemato apposta per l’occasione, dove incontrò folte rappresentanze di tutte le sezioni. Qui celebrò la messa e dopo restò a colloquio con il comandante del Campo per pianificare un piano di soccorso per i prigionieri. 
La liberazione iniziò dal 10 aprile 1946, quando i prigionieri in rivolta, ormai stremati da quella condizione, ruppero le recizioni e cominciarano l’esodo sconfiggendo il controllo armato, aiutati dal disinteresse delle guardie inglesi, anche loro desiderose di tornare ormai in patria.
I fuggitivi trovarono accoglienza in città vecchia, presso le abitazioni private e le parrocchie, dove vennero aiutati ad uscire incolumi dalla città per tornare alle proprie terre.

Il campo fu definitivamente smantellato un mese più tardi ma,  restano visibili dello stesso, di fronte a quello che oggi è denominato quartiere Paolo VI, i basamenti in cemento delle dieci baracche che contenevano i reduci.