mercoledì 11 novembre 2015

LA NOTTE DEL “GIUDIZIO” DI TARANTO






La sera dell’ 11 novembre 1940 la luna piena illuminava la serata di San Martino, quando alle 19:30 la sirena dell’allarme aereo cominciò a suonare. I fumogeni sulle chiatte del Mar Piccolo erano già in funzione. Dopo un ora iniziò il fuoco delle batterie contraeree, concentrate sul Mar Piccolo e sull’Arsenale M.M. I razzi luminosi illuminarono a giorno tutto il borgo.
La pausa del fuoco antiaereo non fece scattare la sirena del cessato allarme, e questo preoccupò tutti convinti che qualcosa di peggio stesse per accadere.
Erano appena passate le 23:00 quando sul porto, dove erano ormeggiate sei corazzate della Marina Militare: Giulio Cesare, Caio Duilio, Cavour ,  Andrea Doria e le nuovissime Vittorio Veneto e Littorio, sopraggiunsero di sorpresa 12 aerei inglesi: due bengalieri, quattro bombardieri e sei aereosiluranti.
Era cominciata “ l’operazione Judgement” (operazione giudizio), così come era stato chiamato dagli inglesi, l’attacco alla supremazia militare della flotta italiana nel Mediterraneo.


Mentre la contraerei ha iniziato un intenso fuoco di sbarramento contro l' obbiettivo mobile, quasi invisibile nonostante la luna piena, i bombardieri sganciano le prime bombe, sulle corazzate illuminate dai bengala.
La corazzata Conte Cavour
 
Circa dieci minuti dopo, uno dei bombardieri, a motore spento, in picchiata colpisce la Cavour appena prima di essere abbattuto.
Quasi contemporaneamente anche la Duilio e la Littorio vengono colpite,  prima di una tregua.
Nave Caio Duilio
Dopo appena cinque minuti, gli swordfish inglesi tornarono per scatenarsi contro la flotta italiana fino alle 00:30, quando fecero ritorno alla base.
Il rombo degli aerei e gli scoppi dei missili furono sostituiti dalle sirene dei mezzi di soccorso che si dirigevano verso il porto. Nessuno aveva ancora capito cosa era successo.
Nave Littorio
All’alba i pescatori andarono a lavorare, come facevano sempre, ma dovettero ritornare indietro perché il canale navigabile era consentito solo ai militari e ai mezzi di emergenza, ma furono loro che, per primi, diffusero la notizia dell’affondamento delle navi.
Il passaparola fu immediato e i Tarantini si riversarono sulla ringhiera del  lungomare ad assistere allo scenario triste delle navi più belle della Marina che giacevano in un mare oleoso. 
I danni subiti dalle navi furono ingenti e si deve alla perizia dei comandanti e degli equipaggi se non affondarono, perché riuscirono aportarle sui fondali bassi, dai quali, poi, furono disincagliate dai tecnici e dalle maestranze dell’Arsenale M.M.
 
Tre bombe avevano colpito la Littorio, dove persero la vita 23 uomini;
Una bomba aveva colpito la Cavour, dove morirono 16 uomini;
Una bomba aveva colpito la Duilio, dove ci fu solo un morto.

Questi “i numeri” del dolore dei  Tarantini,  sgomenti difronte alle assurdità della guerra. 





lunedì 5 ottobre 2015

Le gelàte d’u’ furne




“S’hanne rutte le tìempe”
Questa la frase pronunciata all’arrivo dei primi temporali estivi  che salutano l’estate e accolgono l’autunno.
In realtà nulla di catastrofico, le spiagge sono ancora  frequentate e lo scirocco persiste ancora ma ormai  “l’àrie ha cangiàte”… e pure lo spirito. Già, si comincia a provare nostalgia delle vacanze, del mare …e dei gelati.
E’ vero che oggi i gelati si trovano tutto l’anno, ma chissà quanti di voi, come me, quando da piccoli continuavano a chiedere il gelato,  si sono sentiti dire:  "stàtte sòte ca mo’ arrìvene le gelàte d’u furne"…   

Frase inquietante che scatenava golosità e fantasia, e ci portava a chiederci: "Ma se i gelati si sciolgono tra le mani come fanno ad andare in forno?" . Questa la curiosità che superava la “nanca” e ci lasciava lì, buoni buoni  ad  aspettare…. Ma i gelati non arrivavano mai, men che meno quelli del forno…   
Bello poi da grandi scoprire che non ci avevano preso in giro perché  "le gelàte d’u furne" non erano  il parto prematuro di  una strapazzata fantasia popolare, ma una  specialità pasticcera dell’inizio del secolo scorso, servita nella pasticceria Lippolis di Bari. 
Pare che il suo inventore (probabilmente il proprietario della pasticceria) ebbe l'idea di racchiudere il gelato  farcito di mandorle e canditi, nel pan di spagna e prima di servirlo lo riscaldava nel  forno… una vera leccornia!
Ma non si può far altro che continuare ad immaginarne aspetto e sapore,  perché  il gelato al forno è scomparso  col suo inventore,  e nessuno fino ad oggi lo ha più riproposto… 

Quello che è rimasto è il modo di dire: mo’ avènene  le gelàte d’u’ furne
Una forma de ntartiène per i piccoli di ieri, che farebbe effetto anche sui bambini di oggi.
 
Per i grandi invece indica un evento che non avverrà mai – oppure viene usato  in risposta a chi si ostina a chiedere  qualcosa che non potrà mai ottenere.

domenica 5 luglio 2015

Càpe o lettere



La vita è un susseguirsi di scelte. Ogni attimo si conclude con una scelta, tra si o no, bene o male, dire o fare,  andare o restare, dormire o alzarsi,  bere o mangiare  …. e non sempre  è facile decidere,  perché ogni decisione porta delle conseguenze. E allora?...
Ci si affida al caso, ed uno dei  metodi più utilizzati è il Testa o croce, un modo per scegliere  tra due possibilità utilizzando una moneta . Consiste nell'associare le due scelte possibili alle due facce della moneta, e a considerare estratta la scelta relativa alla faccia visibile dopo averla lanciata in aria. 
Un criterio di scelta che appaga anche la voglia di giocare, tanto da dare vita e nome ad un gioco consistente nello scommettere ed indovinare  la faccia della moneta  visibile dopo il lancio.
Il nome di Testa o croce è dovuto al fatto che le monete recavano su un verso la faccia del  regnante e sull’altro una croce.
Classico esempio italiano sono le due lire del 1861 recanti su un lato la testa di Vittorio Emanuele II e sull’altro la croce sabauda.

Per noi tarantini questo gioco prende il nome di  càpe o lettere , dove
“Cape”  indica il fronte della moneta su cui è stampata la testa, di fronte o di profilo del sovrano, del capo di stato, di un personaggio famoso …

 “Lettere”  indica il retro della moneta,  su cui viene riportato il suo valore  di scambio.

Questo deriva dal fatto che le prime banconote,  erano delle “lettere di scambio” con cui le banche autorizzavano i loro clienti ad effettuare i loro pagamenti  senza l’uso di monete, e garantivano ai possessori di queste lettere, di poterle cambiare presso altra banca, ottenendone il corrispettivo.
Per estensione, il retro delle monete, indicante il valore di scambio delle stesse, venne chiamato “lettera”. 

Questo gioco era praticato già nella  Roma repubblicana col nome di "navis aut caput" (nave o testa) perché sulle monete di quel periodo riportavano su una faccia una nave e sull’altra la testa di un Dio o del Console sotto il cui governo erano state coniate.


 In realtà questo gioco ha origine più antiche, probabilmente da un gioco in voga nell’antica Grecia,  l’ostrakinda, che utilizzava una conchiglia o un coccio con una delle due facce colorata di nero.
Un giocatore lanciava in aria la conchiglia o il coccio, dicendo:  "nux kai hemera" (giorno o notte) e l’altro giocatore doveva indovinare quale faccia si sarebbe mostrata dopo il lancio.

lunedì 29 giugno 2015

San Pietro e Paolo e ... le tarante


Oggi 29 giugno festeggiamo San Pietro e Paolo e un tempo le ragazze nubili... signorine... zitelle.... vacandije... in questo giorno, al passaggio di un gruppo di ragazzi, prendevano una pietra e, girandosi di spalle, la lanciavano dicendo:
< Pe’ San Piètre e ppè San Pàule 
mègne ‘a petre a cci ‘vène mòne >

Al ragazzo colpito chiedevano il mestiere, perchè lo stesso lavoro avrebbe fatto il loro futuro marito. 
Un vecchio detto recita:  
"De San Giuànne e de San Pàule 
s'allistene le tàvule, 
e ogne uagnèdde vacandije
s'acchie 'u zìte ca vòle Ddije....."


Se nonostante tutti i riti propiziatori, le invocazioni e le preghiere, rimanevano "zitelle".... rischiavano di diventare anche "tarantate"...


Se in agosto festeggiamo la “notte della taranta”,  oggi, dovremmo festeggiare  il “giorno delle tarantate”, ossia delle persone punte dalla tarantola, una specie di ragno diffuso a Taranto e in tutto il Salento. 

Le persone “pizzicate” da questo ragno cadevano in uno stato di malessere generale, un delirio, una malattia molto diffusa fino al secolo scorso, che la cultura popolare definisce appunto tarantismo e la medicina popolare cura con la musica e il ballo, così come ricordano i versi di  questo scongiuro:

"T’ha pezzecàte, t’ha muzzecàte
‘a tarànte avvelenàte.
Cu le suène, balle e cande
L’accidìme tutte quande,
tutte quande le vièrme brutte
se ne volene tutte, tutte !"

Se il malato era malinconico, depresso, si eseguivano musiche allegre e vibranti, se era sovreccitato si eseguivano musiche lente, tristi, spesso sensuali.
Le musiche utilizzate in questi casi sono dette “pizzica” o “taranta” e nel tempo sono state anche cantate.

< Addò t’ha pizzicate la tarantella
   Addò t’ha pizzicate la tarantella
   Sott’allu giragire d’a vunnèdda
   Sott’allu giragire d’a vunnèdda

   Addò t’ha pizzicate pozz’ess’accìsa
   Addò t’ha pizzicate pozz’ess’accìsa
   Sott’a putaredde d’a cammìsa
   Sott’a putaredde d’a cammìsa >

( Questi i versi della pizzica riportati da A. Majorano in “Zazarèddere” )



A volte però la musica non bastava e all’ “esorcismo” coreutico – musicale, praticato nell’ambiente raccolto del domicilio, bisognava aggiungere una seconda pratica terapeutica: il pellegrinaggio alla chiesetta di San Paolo in Galatina il 28 e 29 giugno, giorno di commemorazione del Santo, patrono, insieme a San Pietro, della città.
L’attributo di guaritore conferito al Santo va ricercato in un fitto intreccio di credenze
popolari che traggono origine da un passo di Luca negli Atti degli Apostoli in cui si narra
il viaggio di S. Paolo, il naufragio nell’isola di Malta, la sua figura di vincitore per
grazia divina dei serpenti velenosi e, infine, la ripresa del viaggio che lo condusse a Roma.

Da qui nacque la leggenda popolare secondo la quale Paolo ottenne da Dio la facoltà di
guarire dal veleno dei serpenti e,  per estensione, anche da quello dei ragni.

Una delle più famose “pizziche” è dedicata proprio a :

Santu Paulu  
E Santu Paulu meu de le tarante,
e Santu Paulu meu de le tarante,
ca pizzichi le caruse, ca pizzichi le caruse,
ca pizzichi le caruse a ’mmienzu ll’anche,
a ’mmienzu ll’anche, a ’mmienzu ll’anche,
ca pizzichi le caruse a ’mmienzu ll’anche.

E Santu Paulu meu de li scurzuni,
e Santu Paulu meu de li scurzuni,
ca pizzichi li carusi, ca pizzichi li carusi,
ca pizzichi li carusi alli cuiuni,
alli cuiuni, alli cuiuni,
ca pizzichi li carusi alli cuiuni.

E Santu Paulu meu de Galatina,
e Santu Paulu meu de Galatina,
fammela 'ccuntentà, fammela 'ccuntentà,
fammela 'ccuntentà stà signurina,
stà signurina, stà signurina,
fammela 'ccuntentà stà signurina.

E Santu Paulo meu dele tarante,
famme na grazia a mie a tutte quante.
E Santu Paulo meu de Galatina,
fammela cuntentà sta signurina.
E te pregu Santu Paulu falla guarire,
e te pregu Santu Paulu falla guarire,
e ca l’ave pizzicata e ca l’ave pizzicata,
e ca l’ave pizzicata la tarantella,
la tarantella, la tarantella,
e ca l’have pizzicata la tarantella.

E cu te pizzicau la tarantella,
sutta lu giru giru dela gunnella.
E se vidi ca se cotula lu pete,
Quiggiu è lu segnu ca vole ballare.
E lassatila ballare ca è tarantata,
ca porta la taranta sutta lu pete.
E balla bella mia ca sa ballare,
ca lu tu ballo sai move lu pete.

E santu Paulu meu de le tarante
Pizzichi le caruse e falle  sante


La fantasia popolare ha finito per coprire, fino a nascondere un fenomeno che non era causato dal morso della tarantola ma dai rimorsi di una vita di duro lavoro, sacrifici, privazioni, rinunce e soprattutto di divieti che finivano per turbare il vivere quotidiano fino a sfociare nel disturbo psichico che faceva ammalare anche il corpo.
Nella maggior parte dei casi era “l’amore” il vero malanno. L’amore ostacolato, negato, perduto, tradito … difficile a quei tempi.
Per questo l’unica cura possibile erano il ritmo e le vibrazioni del suono.
E’ la musica l’elemento essenziale che oggi come ieri ci libera dal male e,  il ballo rimarrà sempre: “l’espressione verticale di un desiderio orizzontale”.


A corredo di quanto scritto, un video documenario del 1962 che tratta l'argomento: