martedì 31 dicembre 2013

L'urteme cunsiglie.

L'urteme giurne de l'anne
sciame tutte scappanne e fuscenne
ma nu vecchie muttette nuestre 
diceva: Pe' San Silvestre
no' se fatije e no' se tesse,
no se mette file all'aghe
e manche pettenesse 'ncape.



*Buona fine  e Miglior principio a tutti*

mercoledì 25 dicembre 2013

Natale d'u puveriedde


Oggi è Natale e ognuno festeggia come può, spesso dimenticando che c'e anche chi non può festeggiare in nessun modo. 
A me piace ricordarlo con una poesia che recitava sempre mio nonno:

 
Osce è Natale e Sante Ggiuste
è rrevate la nascita de Criste,
a ci s'ha fatte la vesta a ci lu sciuppe
e jie voche alla scazate come a Criste;
ci s'ha mangiate a carne e ci l'arruste
e jie c'u benochele l'agghie viste;
vulè passave sotte de le furche 
ma no n'otre Natale come a quiste.


AUGURI



venerdì 1 novembre 2013

LE CHIANGEMUERTE


Veglie, funerali, lutti, una triste realtà oggi vissuta con compostezza, ma una volta erano momenti carichi di usanze e tradizioni ricche di una ritualità antica che si perde nei costumi  dell'antico Egitto, della Magna grecia e degli antichi romani.
Famoso ancora oggi il moroloi (μοιρολόι) il canto funebre greco, l’usanza, praticata fino a non molto tempo fa, che durante la veglia funebre imponeva di piangere, lamentarsi, disperarsi, accompagnando il tutto con gesti concitati, dando vita ad una teatrale rappresentazione del dolore.
Non a caso ho usato l’aggettivo “teatrale” - perchè l’arte di saper piangere i morti, ereditata dai nostri antenati, non era concessa a tutti, per questo la gente cominciò a chiamare “le chiangemuerte ” … ossia le prefiche, donne vestite con abiti scuri e coperte in viso con un velo nero si recavano a casa del defunto col triste compito di piangerlo e di cantarne le virtù nell'esecuzione de " 'u latuèrne" ossia del lamento funebre, una cantilena che raccontava del defunto rievocando i fatti più salienti o della sua vita.


In questa professione si distinsero le donne calabresi che, segnate dalle frequenti tragedie in mare e dalle morti di lupara, fin da piccole piangevano padri, fratelli e poi mariti e figli, portando un lutto che le tingeva di nero accompagnandole sino alla tomba. A volte rimaste sole si allontanavano dalla Calabria, dalla terra che le aveva tolto insieme ai loro cari, anche la fede. Giravano alla ricerca di poter piangere un morto, perché in questo modo sfogavano il loro dolore. Queste donne che vestite di nero elemosinavano dolore per poter sfogare le lacrime in cui annegava il loro cuore venivano chiamate “mamme calabresi”, e così facendo, dettero vita ad una vera e propria professione che nel Medioevo anche la Chiesa con un mandato ufficiale che "legalizzava" il loro operato, riconobbe e ne sancì il pagamento.
Anche a Taranto fu praticata questa professione. Vico Pentite prende nome dal fatto che proprio in questo vicolo esisteva il Conservatorio delle Pentite, rifugio per povere donne rimaste sole e per “le pentite” (donne che avevano fatto vita di strada, e che per “raggiunti limiti di età” si ritiravano in questo luogo). Queste donne vivevano di carità e molte di loro diventarono prefiche.
'U latuerne era composto da frasi tipiche pronunciate interpretando vari ruoli:

quando moriva un uomo, la vedova, la mamma, la sorella diceva:
"Ha rrevàt'u viènde riefele 
ca jatàve d'a marine
s'ha 'nfelàte a casa meije
e ha spezzàte 'a megghia cima"

oppure:

"O morte, morte
quanda cose sape fàre,
ha trasute a casa mejie
e ha spezzate 'a megghia trave"

Una mamma distrutta dalla morte del figlio:

"T'aspètte figghie mije 'nzìgne a le trète,
ma quanne vèche ca no'nge aviène,
allora hagghia mettere sottasuse
'a case, l'urtàle e 'u larie
e hagghia lucculà pe sembre, ci no'nge aviene!"
oppure:
"Accussì 'ngràte è 'u destìne,
accussì triste è 'a nature.
Pò nascere ancòre l'erve
e finì l'alberatùre
maje cchiù frutte sarà mature.
Stu dulore a da durà, core de mamme
'nzigne a quanne 'stù core dure."
ma anche:
"d'addò venne sta morte?
stàve 'npiede, po' ncapetàle
e me sendève suffucàre
me credève ca era 'u miedeche
trasùte pe sanàre
'mbèce er'a morte
ca m'era venute a caresciàre"

e per finire:
"Pò chiovere de Pasca,
a Natale nivicàre
ma p'u figghie mije
no ppò cchiù chiaresciàre"


"Le latuerne" erano intervallati da "le lucchele"  ossia le grida di dolore dei familiari.
Rivolti alle prefiche:

"luàteve stù bbanchette è 'u mije"
la vedova che si rivolgeva al marito morto:
“Te n'è vulàste come n’acjiedde!”
...
“Agghie perse ‘a culònne de casa – mo' po’ sgarrà tutte cose!”
...
“E lassàte na casa vacànde!”

I figli alla madre:
“A mà piccè no me parle cchiù!”
...

“Mà uèzete e damme mazzàte ca ma scè fatià!”

Le mamme che piangevano i figli:
“Figghie rispunne a mammete n’otra vòta sola!”

Mia nonna raccontava di una veglia funebre,per una giovane donna morta dopo aver messo al mondo un bel bambino, in cui la frase ricorrente ripetuta dal marito era:
“Signore, m’è lassàte nu chile e t’è pigghiàte nu quindàle!”

Frasi che ricordavano gesti di vita quotidiana, a volte senza senso, che a volte rubavano un sorriso ma servivano a sfogare il dolore di quei momenti.

lunedì 2 settembre 2013

A' cuccuma napuletana



Qualcuno l’ha usata… altri l’hanno vista nei film e sicuramente in qualche commedia di Eduardo, ma sicuramente ci sarà qualcuno che non l’ha mai vista…


Ebbene lei è  la caffettiera napoletana, l’antenata della più moderna ma soprattutto pratica moka.

Fare il caffè con la napoletana non era difficile ma richiedeva più tempo.

Anch'essa si compone di tre pezzi:
- la caldaia, dove si metteva l’acqua
- il setaccio dove si metteva la miscela
- la parte col beccuccio che raccoglieva il caffè.

La differenza sta nel fatto che il caffè non ci arrivava per pressione ma per caduta, infatti una volta che l’acqua messa nella caldaia iniziava a bollire, si spegneva il fuoco e si capovolgeva per consentire all’acqua bollente di passare attraverso il filtro e diventare caffè, operazione che comportava un’attesa di “almeno 3 o 4 minuti” (come consiglia Eduardo in “Questi fantasmi”) ma che poteva arrivrae anche 10 minuti ….. ma più lunga era l’attesa più intenso era l’aroma del caffè.

A tal proposito  voglio raccontarvi una storiella:

Concetta è la domestica in una casa di benestanti. Un giorno arrivarono ospiti e la signora le disse di preparare il caffè. Dopo un po’ di tempo la signora chiese: < Concetta è pronto il caffè?>  e lei rispondendo dalla cucina: < Sini signò, quantu mi lavu li mani e lu culu! > 


La risposta  scandalizzò gli ospiti, ma si riferiva semplicemente alla fase di filtraggio del caffè preparato con la napoletana.

sabato 31 agosto 2013

'U còfene


 
Oggi per fare il bucato basta mettere i panni in lavatrice e schiacciare un bottone, ma una volta richiedeva due giorni di lavoro…

Si cominciava all’alba, quando i panni venivano messi a rimmuddare  (in ammollo) nella pila, poi venivano passati col sapone su 'u stricatùre (l'asse per strofinare i panni).

Nel frattempo si accendeva il fuoco per riscaldare la prima caldaia d’acqua. Finito di stricare, i panni venivano messi nella grasta:

sotto quelli più sporchi e mano a mano quelli più puliti. Si copriva la grasta con un panno u’ cirnature, su cui veniva messa della cenere. Quando l’acqua era pronta si versava su u’ cirnature. In questo modo la cenere rimaneva sul panno e l’aqua e cenere, u’ ranne filtrava attraverso i panni. La cenere era disinfettante e sbiancante naturale. 
Nella parte bassa la grasta aveva un foro di scolo che, dopo qualche ora, si sturava per far uscire a’ lissie (la lisciva), l’acqua ricca di cenere e sapone,  che si raccoglieva in un recipiente 'u limme
situato sotto la grasta.

La lisciva veniva riscaldata nuovamente e versata sui panni, si scolava di nuovo e si ripeteva per cinque o sette caldaie, nell’ultima vacàta si mettevano sul telo foglie di alloro e lavanda che servivano a profumare la biancheria, e si lasciava tutta la notte.

La mattina dopo si scolava questa liscivva e si versavano tre o cinque caldaie di acqua pulita per sciacquare i panni. Quando l’acqua dell’ultima caldaia si era raffreddata, i panni si strizzavano e si mettevano nel limme da dove poi si prendevano e si stendevano a fili di ferro tenuti alti da appositi pali. A volte occorreva tutta la giornata per asciugare il bucato e i panni si ritiravano nel pomeriggio, prima del tramonto altrimenti si diceva che pigghiava d'u maliciedde (l’odore dell’umidità).


L'ultima lisciva veniva conservata e usata per lavare altri capi delicati e colorati ma soprattutto per lavare i capelli. La cenere infatti ha proprietà sgrassanti e disinfettanti.














martedì 27 agosto 2013

'A Sanda Mòneca

Il 27 di agosto la chiesa cattolica ricorda Santa Monica, madre di Sant'Agostino.
Santa Monica fece voto di non abbandonare il figlio Agostino finchè questi non si fosse convertito al cristianesimo. La sua tenacia e perseveranza compirono il miracolo e Agostino finì per battezzarsi. Santa Monica ritenne così di aver compiuto con ciò la propria esistenza terrena e si spense serenamente ad Ostia, vegliata dal figlio, futuro padre della Chiesa.

Il culto di Santa Monica era diffuso in tutto il bacino mediterraneo di fede cattolica ed era legato ad una pratica divinatoria. 

Il nome della santa era invocato da coloro che volevano avere notizie dei propri cari lontani o dispersi a causa di guerre, cataclismi o altri drammatici eventi.
In tempi in cui il telefono non esisteva ed anche spedire una lettera era una impresa, non era raro che bastasse che qualcuno emigrasse in una città distante qualche centinaio di chilometri per perderne le tracce, a volte per sempre.
Tradizionalmente, chi voleva avere notizie di un proprio caro doveva vegliare in preghiera e alla mezzanotte tra il 26 e il  27 agosto, approssimarsi ad un incrocio, un trivio o un quadrivio,
rivolgere una invocazione alla santa, ed osservare e ascoltare tutto quello che succedeva subito dopo. Persone, animali, parole, suoni. 
In funzione di tutti questi particolari si sarebbe potuto trarre il responso alla domanda rivolta alla santa: 
per esempio: vedere un carabiniere significava guai con la giustizia; dottori o simili guai di salute, ecc. 
Il rito di Santa Monica era anche impiegato per avere risposta ad altre domande: se una fanciulla avrebbe trovato marito, se un matrimonio sarebbe stato felice, se una impresa avrebbe avuto successo ed altri dubbi simili.

Solitamente questo compito era svolto dalle donne più influenti della famiglia e veniva trasmesso in maniera matrilineare e riservata. 
Il rito iniziava col segno della croce e recitando un Padre Nostro, un Ave Maria e un Gloria al Padre  e infine l'invocazione alla santa:
"Sanda Mòneca piatòsa,
sanda Mòneca lacremòse;
a Rome sciste e da Melàne avenìste;
e cume le nueve d'u figghie tue annucìste,
accussì annuce le nueve

…de ( …marite, figghie, frate, sore…).
(Santa Monica pietosa,
santa Monica lacrimosa;
a Roma andasti e da Milano venisti;
e come portasti notizie del tuo figliolo,
così portami notizie di (…un marito, figlio, figlia, fratello, sorella…)


Nel 1947 Alfredo Majorano mette in scena la commedia "A Sandamoniche", e nella prefazione del libro, così spiega questa pratica:
"...Invocano Santa Monica le  mamme per conoscere l’avvenire dei figli, le fidanzate per sapere se saranno sposate dai loro promessi, le maritate abbandonate che sperano il ritorno dei loro uomini al focolare domestico e chi spera anche di ereditare da parenti che stanno per scomparire dalla scena del mondo. 

Svelare il futuro con segni manifesti; questo si chiede a Santa Monica.
A mezzanotte in punto le nostre popolane, affacciate ai balconi, ai terrazzi, dopo aver recitato un Pater, un’Ave e un Gloria, invocano Santa Monica ….. Indi, restano in ascolto, trepidanti, per trarre l’oroscopo lieto o triste dei propri affanni, delle proprie speranze, dai fatti che si svolgono giù per la strada ed oltre, qualsiasi manifestazione esterna vista ed udita sarà considerata un segno rivelatore: ciò che dicono i passanti, un canto di uomo o donna, un pianto di bambino o adulto, una risata allegra o sghignazzata, una porta sbattuta violentemente, un cane che abbaia, il fischio del treno ed anche gli elementi atmosferici, cioè pioggia, vento, temporale, eccetera..."


Nella Commedia di Majorano, dopo il Pater, Ave, Gloria, l'invocazione alla Santa è preceduta, e rafforzata, da una invocazione alla magia della notte, recitata anche per la notte dell'Epifania, tra il 5 e 6 gennaio:
" Sanda nott'è sanda dije
sanda Pasca Bufanije
famme vidè a sorta meje mprinsione,
cu a cont'a ogne pirsone."
(Santa notte e santo giorno
santa Pasqua Epifania
fammivedere la mia sorte in visione
perchè la racconti a tutte le persone.)

e la commedia si conclude con la protagonista Ndulerate che dice:
"a ci no crète cu le digghia cadè 'a lenghe"

domenica 23 giugno 2013

'U suènne de San Giuànne

San Giovanni è conosciuto come colui che ha battezzato Gesù, ma anche per i riti propiziatori legati al giorno della sua festività, per i riti premonitori sul matrimonio, e per ...
il sonno...
Si, proprio per il sonno, quello rigenerante, tranquillo, profondo e soprattutto lungo.
La leggenda popolare, narra che il piccolo San Giovanni,  dormì per tre giorni e tre notti consecutive, di un  sonno  talmente profondo che neanche Gesù  riuscì a svegliarlo.
Al suo risveglio, Gesù gli disse:
“Ieri è stata la tua festa e non te ne sei accorto!”.


Per conciliare il sonno dei bambini più vivaci, si usava somministrargli un infuso di "erba di San Giovanni" (iperico)  dicendo:
" ddigghia fàre 'u suènne de San Giuànne, ca durmì tre notte e tre giùrne "


Il rinomato sonno di San Giovanni viene ricordato anche in una preghiera, usata per invocare il Santo contro il maltempo, che inizia proprio con l'esortazione ad alzarsi:

" Uèzete! San Giuànne, e no' durmìre,
ca vèche tre nuvele da venìre:
une d'acque, une de viènde, une de brutte maletièmbe.
Addò 'u purtàme 'stù maletièmbe?
Sotte 'a 'na grotte auscùre,
addò 'nò cànde jàdde, addo'nòllùce lune,
cu 'nò face male a mmè e a nisciùna crijature." 





martedì 4 giugno 2013

Italia Almirante Manzini

 Il 4 giugno 1890 nacque a Taranto l'atrice Italia Almirante Manzini.




Iniziò a recitare da piccola, nella stessa compagnia in cui il padre era capocomico.
Appena ventenne (1910), esordì con la casa cinematografica Italia Film, nella pellicola “Gerusalemme Liberata”. 
Recitò anche nel ruolo di Sofonisba nel primo film che mise in scena l’eroe mitologico Maciste, che diede poi il nome alla stessa pellicola. Sposato l’attore teatrale Amerigo Manzini, non si limitò ad essere una diva del cinema muto degli anni ’20, ma iniziò a calcare numerosi teatri di prosa. 
Soprannominata “l’ardente fiore del melograno”, la splendida Italia è stata in grado d’interpretare meravigliosamente i personaggi femminili più disparati, racchiudendo in sè l’immagine completa di donna, madre, moglie e amante al tempo stesso.


venerdì 8 marzo 2013

U' rasciule



Una malattia che non impedisce il normale svolgimento delle attività giornaliere (…)  che la saggezza popolare attribuisce a stili di vita ed abitudini almeno discutibili quando non stigmatizzate, curata infallibilmente dalla farmacopea popolare…
…Avevo quattro anni, più o meno, quando una mattina mi svegliai con un occhio gonfio e dolorante che non riuscivo ad aprire neanche dopo un'energica  stropicciata che mi fece aumentare il dolore. Spaventata mi alzai e correndo andai in cucina a cercare "la mamma" per capire cosa mi era successo. Lì trovai anche la nonna che subito mi disse: "Vidime c'è tène a piccènna mejie!" e dopo avermi osservata commentò: "Ah! Muscitàzza! t'ha 'sute u' rascjùle (l'orzaiolo), allora a quarcune e viste u' cule!"
Non avevo capito niente! Mentre tutti gli altri intorno a me se la ridevano, cominciai a piangere. Le parole di mia nonna avevano aggiunto alla mia paura iniziale, un senso di colpa per qualcosa che non avevo fatto, e un senso di rabbia perchè non avevo neanche capito nulla e loro ridevano della mia sofferenza!
Intanto mia madre aveva preparato già della camomilla e appena pronta mi tamponò l'occhio malato che piano piano riuscii ad aprire. Rassicurata dal trattamento indolore e rincuorata da quel miglioramento, smisi di piangere e mi avvicinai a mia nonna dicendo: "Nonna, te lo giuro io non ho visto niente!" e mia nonna mi sorrise e mi disse che lo sapeva e che mi avrebbe fatto passare la bùa.
Nel pomeriggio venne pure la nonna materna a vedere come stava 'a piccènna...
Poi le nonne si misero a parlare scambiandosi tutto ciò che sapevano sul rascjulo e decidere cosa fare…
Siccome tutti i riti vanno praticati la sera dopo il tramonto, quando non c'è il sole, nel tardo pomeriggio, mentre mia mamma mi teneva in braccio, ad un certo punto vidi comparire mia nonna con ago e filo...
pensai subito che volessero cucirmi l'occhio malato e scoppiai a piangere, gridando e scalciando! (ero terribile!!!)
La nonna cominciò a spiegarmi che l'ago non doveva essere usato per cucire l'occhio, ma che bastava solo passarlo davanti all'occhio malato, facendo finta di cucire, il rascjulo temendo quella minaccia, dopo la prima sera, non cresceva più, la seconda sera guariva, e la terza sera scompariva, scappando via spaventato.
Incantata da questa storiella, avevo smesso di piangere e la nonna tentò di cominciare "il rito" e mi chiese: "C'è tène a piccènne?" e io, singhiozzando: "u' rascjule", e loro: "e mò u cusìme".
Appena presero ago e filo facendo il gesto di cucire, io ricominciai a piangere!

Visto che quel rito mi spaventava e non avrebbe avuto effetto perchè mi agitavo troppo, decisero di cambiare...
presero una bottiglia di olio d'oliva e mi dissero che dovevo guardare dentro, appoggiando l'occhio malato sul collo della bottiglia.
La cosa mi sembrava fattibile, ma stavo ormai piangendo a singhiozzi e lacrimoni che avrebbero riempito la bottiglia! Insomma anche questo rito non si poteva fare!
Le nonne decisero che avrebbero riprovato la sera dopo e misero a posto ago e filo e la bottiglia dell'olio.
Tornata la normalità, anche io, sempre in braccio a mia madre, cominciai a calmarmi. Allora mia madre si tolse la fede nuziale e me la passò per tre volte sull'occhio malato, facendo il segno della croce......mi addormentai. La mattina dopo l'occhio era sgonfio! Sarà stata la camomilla, la fede d'oro di mia madre, l'olio d'oliva o la paura di ago e filo...il rascjulo era sparito!

Strane credenze con rimedi ancora più strani, misti tra magia e religione. Preghiere recitate manipolando gli oggetti più impensati. La medicina classica popolare utilizza elementi religiosi, mitologici e perfino rituali magici, unendo il razionale all'irrazionale. Efficace o no? Mah! chi lo sa? A volte funziona! E’ bello raccontarle, ma la cosa più importante  è fermare queste testimonianze, per sottrarle all'oblio del tempo.