domenica 27 maggio 2012

'u sunale


Dopo a’ curèscia occorre parlare di un altro accessorio importante, il grembiule.
Richiama l'immagine della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia.
Chissà quante volte, noi donne, indossiamo un grembiule per evitare di sporcarci gli abiti. E chissà quante volte, voi uomini, ci vedete con indosso tale indumento e pensate che siamo sciatte e poco femminili, ma nell'antichità le cose stavano diversamente e quello che oggi rappresenta un banale "attrezzo" da cucina, nel passato era anche simbolo dei ruoli femminili: la maternità e il servizio domestico senza orari, la disponibilità illimitata ai bisogni della famiglia e assumeva un significato simbolico non trascurabile. Le donne se ne servivano, infatti, per manifestare ciò che non potevano dire con le parole.
Il grembiule (sunale), nato per fini pratici, finì con il diventare un complemento essenziale dell'abbigliamento femminile.
Quando erano in cucina, le donne indossavano un grembiule di colore bianco, rigorosamente candido, mentre quando andavano nei campi a lavorare il colore del  grembiule era il nero.
Ma il grembiule era sempre presente, anche sul vestito della festa, in bella vista, c'era 'u sunale", di tessuto leggero in sintonia con la tinta della gonna, di valenza non solo decorativa ma anche fortemente simbolica: il grembiule era protezione del sesso, e, donato allo sposo, simbolo di possesso esclusivo da parte di quest’ultimo.
Il grembiule era anche chiamato, in dialetto salentino "nguccia irgògne" (copri vergogne), perché lo si considerava idealmente uno "scudo" posto a difesa delle parti intime. Ne è riprova il fatto che nessuna donna leale si sarebbe mai sognata di uscire da casa senza prima aver indossato il suo grembiule. Se avesse agito contrariamente, sarebbe stato come andare in giro nuda.
Se una ragazza nubile, accortasi che un bel giovanotto la stava guardando insistentemente, intendeva ricambiare tale interesse, nel sistemarsi il grembiule lo spostava verso destra, accettando, così, la corte del giovane e lo invitava a farsi avanti con i suoi genitori.
Il medesimo movimento, fatto però dalla parte opposta, cioè verso sinistra, era invece interpretato dagli antichi come mossa d'adescamento impudica e sfacciata.
Il grembiule poteva essere espressione di purezza, come sopra accennato, ma anche simbolo di ribellione.
Una donna superstiziosa, se convinta di essere oggetto di sguardi ostili, ripiegando le estremità del suo "ngùccia irgògne" formava le corna che, a suo dire, avrebbero allontanato le negatività.
Una contadina che avanzava verso il suo datore di lavoro con il grembiule arrotolato sui fianchi, trasmetteva un senso di insubordinazione e di rivolta. Se scoppiava una lite furibonda e la donna gettava la spugna, in segno di resa, nascondeva le mani sotto il grembiule. Ciò palesava uno stato di abnegazione totale e di afflizione.
Le donne tarantine, come un po' tutte le donne del sud, con quel pezzo di stoffa tenevano la propria femminilità al riparo da sguardi indiscreti, e tra le pieghe di quel pezzo di cotone bianco, nero o colorato racchiudevano tutta la loro essenza, tutta la loro vita, il loro patire e le loro rinunce.
Durante la loro vita,......... ma anche oltre..........
Il grembiule era presente anche quando andavano a messa.
Dopo la recita del Rosario, durante le litanie, all'invocazione tutte le donne presenti rispondevano "Ora pro nobis", sollevando contemporaneamente il grembiule.
"Il gesto nasceva dalla volontà di mutare in preghiera il quotidiano affanno, affinché si stabilisse una omologia propiziatoria, fra attese contadine e speranze cristiane.
Ci si serviva di tale indumento anche in occasione dei funerali. Se una donna aveva subito un lutto in famiglia, posava le proprie mani sul grembo esternamente al grembiule.
Se, invece, si recava alla veglia di un conoscente o se assisteva al passaggio di un corteo funebre per strada, poneva le mani intrecciate sotto il sunale, in posizione di preghiera.
La tradizione "grembiulesca", non perdeva la sua efficacia neanche nel mondo dei morti.
Le donne, nei secoli scorsi, venivano seppellite con il grembiule perché ciò significava presentarsi davanti a Dio il più coperte possibile e, quindi, in maniera casta. Tant'è che siccome "vigilantibus non dormientibus..." e "prevenire è meglio che curare", esse, quando avvertivano un possibile pericolo naturale (terremoto, uragano, alluvione), si affrettavano ad indossare i loro "sunale" in modo tale che, se per incidente fosse deceduta qualcuna di loro, non si sarebbe fatta trovare impreparata.
Nel caso in cui una madre e un figlio morivano insieme prima che il piccolo avesse ricevuto il  Battesimo, venivano messi in un'unica bara. Il neonato, adagiato sul ventre della donna, veniva coperto col suo grembiule. Le mani della donna, distese lungo i fianchi e non incrociate sul petto, reggevano i due lembi esterni del "sunale". Tale gesto, rappresentava allegoricamente la supplica rivolta dalla madre a Dio, affinché Egli non condannasse l'anima del figlioletto a vagare nel limbo in eterno.

martedì 22 maggio 2012

A’ curèscia


La cintura,  accessorio di abbigliamento nato dalla necessità di tener su i pantaloni che l’utilizzo e il tempo hanno ammantato di significati diversi e contrastanti.
La cintura era un mezzo  per impartire l’educazione a i figli usata come mezzo di correzione improprio, quanto inutile.
Quando la mamma diceva: Ci no’ a spicce u’ diche a ‘tanete  la situazione era tale da richiedere “mezzi” che la mamma non aveva… e siccome raramente questa frase sortiva i risultati sperati  spesso il padre era costretto ad intervenire e l’esordio era:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a curèscia!....”
la frase intimidatoria che riusciva a fermare l’esuberanza dei bambini, ma non tutti e per i più grandi bisognava ripeterla ricordandone le conseguenze:
“Ci no’ a spicce me ‘lèv’a curèscia! .… e te fàzze le jamme crusciùle, crusciùle!”
ma a volte non bastava neanche questo e per gli irriducibili  prima o poi la temuta minaccia diventava “dolorosa” realtà.
A curèscia  era  quello che mancava alla mamma, per imporre il suo “potere/volere”,  per incutere timore, per educare….una sorta di “scettro del comando” ….. purtroppo molto spesso l’unico  mezzo  che decretava  il proprio ruolo di capo famiglia e di uomo da far valere con i figli e con la moglie quando non erano ubbidienti e sottomessi, ma anche con le bestie quando non volevano lavorare o non riuscivano a procreare, e con gli alberi che non davano frutti a cui venivano sferzati tre colpi di cinghia prima di decidere di spiantarli.
La cinghia non reggeva solo i pantaloni ma era più importante dei pantaloni perché il suo utilizzo colmava l’assenza, l’incapacità ma anche le insicurezze psicologiche dell’uomo.
Portare la cinghia era motivo di orgoglio, non averla era una grave umiliazione e non  perché potevano cadere i pantaloni ma perché un uomo senza cintura non incuteva più paura e perdeva ogni autorità. A volte però, da “simbolo di dominanza” si trasformava in pegno “simbolo della propria parola d’onore” …
Un vecchio detto raccomanda:
Cinca sciurnàta vo’ acchiàre  si face ‘a chiàzza pe’ cummàre (se vuoi lavorare prenditi la piazza per amante = era in piazza che si trovava lavoro)
Chi lavorava a giornata infatti, la sera, dopo una giornata di lavoro andava in piazza, dove passavano i caporali, i fattori, per reperire la manodopera da impiegare nelle terre e nelle masserie. Soprattutto l’inverno i padroni si facevano attendere, e il freddo rendeva l’attesa ancora più estenuante. Quando poi arrivavano, lentamente osservavano la loro merce di uomini abituati ad alzarsi col gallo e a coricarsi con le galline, ma soprattutto abituati a lavorare di zappa dall’alba al tramonto ed ora, come se non bastasse, costretti a stare in piazza a subire le intemperie invernali, nella speranza di essere ingaggiati per i lavori più disparati a con un salario bassissimo che col passare delle ore diminuiva sempre di più, ma qualunque salario consentiva di portare il pane a casa cacciando la fame  dalle loro case.
Ma le stagioni si susseguono, la ruota gira e così, arrivata l’estate e il tempo della mietitura quando non erano più i contadini ad elemosinare il lavoro, ma erano i padroni a rodersi il fegato sperando di trovare la manodopera necessaria per mietere il grano che giunto a maturazione poteva andare perduto per il maltempo o a causa di incendi.
Col calare della sera il salario aumentava, arrivando a vere e proprie contrattazioni. Succedeva che a volte chi era stato ingaggiato a prima ora, rimanesse in piazza e si proponesse a chi offriva un salario più alto, non mantenendo l’impegno preso col fattore che lo aveva ingaggiato prima che il giorno dopo si ritrovava con un lavoratore in meno.
Un atteggiamento poco corretto,  che poco si addiceva alle questioni d’onore del tempo in cui la parola data era sacra e inviolabile, ma si trattava di una vera e propria rivalsa contro lo sfruttamento e le umiliazioni subite e pertanto giustificato e molto praticato.
Per arginare i rischi delle defezioni sul campo di lavoro i fattori all’atto della contrattazione chiedevano, al lavoratore ingaggiato, un pegno: a’ curèscia pe capàrra … avete capito bene, i fattori prendevano le cinture dei neoassunti  dicendo loro:  …ci no s’appresènde s’ha chiànge!
Le cinture venivano restituite la mattina dopo quando si presentavano sul campo da mietere e, come avvisato, chi non si presentava la perdeva.
La gioia di aver trovato un lavoro per il giorno dopo era annullata dall’umiliazione di farsi vedere senza cintura dalla propria famiglia. La perdita della cintura rappresentava simbolicamente la perdita dell’essere e dell’autorità esercitata, e proprio basandosi sull’indispensabilità di questo accessorio che i fattori chiedevano in pegno a’ curèscia piuttosto di altri capi di abbigliamento, sicuramente più indispensabili ma meno importanti. Nessun aumento di paga avrebbe impedito al lavoratore di riappropriarsi di un pegno tanto rappresentativo.
Consegnata la cintura al fattore, ci si affrettava sostituirla con una cordicella, che preventivamente ogni lavoratore portava in tasca, che mestamente aveva il compito di sorreggere i pantaloni.
Appena entrato in casa mestamente si affrettava a dire:  “S’ha pigghiàte a’ curèscia pe capàrra!
Di rimando la moglie rispondeva: Megghie na sarcinàte de na scapuzzàte (meglio una tosatura che la testa mozza = meglio essere sfruttati che morire di fame).
I ragazzini notavano subito la cordicella che penzolava dai pantaloni del padre e prima che lo stupore si trasformasse in consapevolezza la voce della madre li riportava alla realtà sentenziando:
No ve sciàte preoccupànne ca’ dumàne  a’ curèscia torna e ci no’ vi stàte attinde canda pure! E mò scè curcàteve, ca ci curèscia manca u’ battepànne stè rèt’a porta!”