domenica 9 settembre 2012

‘U Luvàto

Oggi per gli impasti lievitati usiamo il lievito di birra che troviamo nel banco frigo di ogni negozio di alimentari. Senza quei cubetti magici, non sapremmo come far lievitare i nostri impasti.
Le nostre nonne non lo conoscevano, eppure il pane e le focacce che facevano erano soffici, i loro impasti crescevano grazie ad un sortilegio chiamato ‘U Luvàto
Una volta era lui l’ingrediente indispensabile per la riuscita degli impasti. Proprio l’importanza di questo elemento e l’effetto che produceva nei semplici impasti di farina, acqua e sale – facendoli raddoppiare di volume – ha circondato ‘u luvàto di una mistica ritualità scaramantica. La ricetta e il procedimento per ottenere ‘u luvàto, conosciuti da “’a furnàre” e da qualche donna anziana, erano segreti gelosamente custoditi e tramandati da madre in figlia per generazioni.
Ma cos’era ‘u luvàto?
Quello che oggi chiamiamo lievito madre. Un pezzo di pasta acida… un semplice, piccolo impasto di farina acqua olio e miele, che veniva lavorato e lasciato a riposare per tre giorni interi ind’nà cuppetèdde cucciàte cu nu’ salviètte – poi veniva lavorato una seconda volta, aggiungendo farina e acqua, e dopo averlo fatto riposare per altri tre giorni si lavorava ancora aggiungendo altra farina e altra acqua – e finalmente ‘ù luvàto era pronto per essere usato.
Come?
La sera prima di preparare l’impasto, indre nà coppètte si squagghiava nu’ poche de luvàto con acqua calda e farina, si copriva e si lasciava a fermentare tutta la notte. La mattina era pronto ‘u criscetùre (il lievito) che in parte veniva incorporato nel grande impasto.
Al rimanente si aggiungeva farina e acqua e si lasciava a fermentare per creare altro luvàto.
Da questo deriva anche il nome luvàto, che in dialetto significa levato, tolto - proprio come il pezzo d'impasto che viene tolto dalla coppetta per poter formare ‘u criscetùre, che era il vero e proprio lievito.
I misteriosi segreti non finiscono qui.
Intorno a questo magico ingrediente c’erano anche dei gesti che dovevano essere categoricamente ripetuti, come ad esempio quello di preparare ‘u luvàto nelle sere di luna crescente e di luna piena, propiziatorie alla crescita.
Altri gesti invece dovevano essere rigorosamente evitati: ‘u luvàto non poteva essere impastato dalle donne quando “le purtavene ‘nguèdde” (nel periodo mestruale) – altrimenti ammuffiva.
Un consiglio popolare sentenziava: <‘u luvàto no s’accàtte, se ‘mbrèste,> (non si compra, si chiede in prestito); …e questo spiegava il giro propiziatorio “de stà cuppetèdde cù stù stuezze de paste” da nà case all’òtre… di parenti amici vicini e conoscenti. Quando si faceva il pane si usava fare ‘u muolitijdde, ossia una piccola pagnotta, che una volta cotta si portava a chi aveva prestato ‘u luvàte… …mentre a cuppetèdde c’u luvàte rumaste, continuava il suo giro.
La magia di certe usanze è legata al mondo contadino caratterizzato da estrema precarietà alimentare. Un mondo in cui il pane era il premio della fatica quotidiana, il prezzo del sacrificio, era l’unico elemento di cui non si poteva fare a meno, e per questo non si negava a nessuno. Un cibo semplice ma preziosissimo che andava protetto benedetto e custodito con gesti e riti che ne confermano la sacralità, perché il pane è la vita stessa.