domenica 22 maggio 2011

Latte d’acijdde

La leggenda dei maccheroni lascia qualche dubbio, più credibile invece, una favola nostrana:

La principessa e la massara.
C’era una volta un principe la cui figlia un giorno si ammalò. I migliori medici, chiamati al suo capezzale, non riuscirono a diagnosticare la malattia. Le facevano bere intrugli e pozioni che la facevano peggiorare.
Il Principe e sua moglie, preoccupati ne parlavano a tutti, chiedendo consigli e aiuto. La giardiniera del palazzo consigliò al Principe di chiamare la moglie del massaro, ritenuta da tutti molto saggia.
Il principe la fece chiamare, e la massara, appena vide la principessina disse che l’avrebbe curata a patto che fosse immediatamente trasferita alla masseria. Il principe era riluttante, ma alla fine, per il bene della fanciulla acconsentirono.
Appena la principessa arrivò alla masseria, la massara le preparò una stanza e cominciò a darle da mangiare ‘ndromese (semolino cotto nel latte di mandorla )  e panecuette (pane cotto con olio, sale e alloro) – e questo ogni giorno a colazione, pranzo e cena.
La cura cominciò a fare effetto e dopo pochi giorni la principessina disse alle figlie della massara, di sentirsi già meglio.
La massara allora, passò ad una medicina migliore, la migliore conosciuta a quel tempo, con la quale aveva tirato su le sue figlie: ricotta col miele  e maccarrùne- sempre a colazione, pranzo e cena.
Un bel giorno la massara riportò la principessa a palazzo, robusta rosea e allegra come un tempo.
Il Principe chiese alla massara come era possibile un simile miracolo solo con del cibo  lei spiegò che i suoi maccheroni erano impastati con latte di mandorla,  svelando così il suo ingrediente segreto
...
‘u latte d’acijdde … 

Chissà quante volte abbiamo sentito l’espressione: “T’hagghie cresciute a latte d’acijdde” – di solito riferita ai figli per sottolineare che non gli si è fatto mancare niente, e che si è fatto addirittura l’impossibile, come procurarsi u’ latte d’acijdde.
Altrettante volte ci siamo chiesti cosa fosse stu’ latte d’acijdde, dato che gli uccelli, non essendo mammiferi,  non producono latte…

Una volta la miseria c’era ovunque , ma  nessuno la subiva anzi la si fronteggiava gagliardamente con  fantasia e l’ironia. La fantasia popolare, sempre molto fervida, ha creato piatti impensabili e l’ironia ha fatto vedere ingredienti che non c’erano, è il caso del “pisceammàre”, dove del pesce non vi era neanche l’ombra, de  “l’ainu scappàte” dove l’agnello non esiste, de "brode jabbàte" dove il brodo è senza carne, vegetale…
Bugie di quotidiana sopravvivenza, cotte in cucina, servite a tavola e mangiate per fame. Minestre semplici  dal sapore deciso con un retrogusto variegato fatto di  civiltà e tradizione tra storia e leggende.

Tutto questo ci riporta ad un piatto antico, nutriente e sofisticato: 

Virmicjedde cu u’ latte d’acjedde” i cui ingredienti sono vermicelli, mandorle, zucchero e cannella – nella versione più antica al posto dello zucchero veniva usato il miele, fondamentale nell’antica cucina dei Greci e dei Romani. Dalle mandorle sbollentate, tritate e spremute, si otteneva il latte che portato ad ebollizione serviva per l’ultima fase di cottura dei vermicelli precedentemente cotti in acqua salata. A cottura ultimata si aggiunge il miele e si cospargeva di cannella. 
Accostamento dolce – salato da nouvelle cuisine, ma prima che Cristoforo Colombo portasse i pomodori e la canna da zucchero, il miele accompagnava pasta, formaggi e persino il pesce… il dolce e il salato non avevano una demarcazione netta, il dolce era un’abitudine irrinunciabile magari temperato dall’agro o dal salato. 
Apicio, che nell’antica Roma poteva condividere con Lucullo la fama di buongustaio, nel suo libro “De re coquinaria”   scrive già di vermicelli cotti nel latte di mandorla e descrive una salsa: il “garum”, fatta con pesce crudo (spesso addirittura marcio),  erbe aromatiche e olio, con la quale condivano non solo il pesce e la carne ma anche i dolci. 
Ma tutte queste curiosità non ci dicono ancora cos’è “u’ latte d’acijdde”...

Per avvicinarci  ad una spiegazione bisogna rifarsi ad una tradizione medievale…

In quaresima era severamente vietato mangiare cibi ricchi come carne, uova, e perfino latte.
Necessità aguzza l’ingegno e la fantasia popolare trovò  anzi inventò dei surrogati…

Le uova erano preparate in un modo strano quanto fantasioso:
Si prendevano della uova di gallina e si bucavano per far uscire tuorlo e albume. Si sciacquavano i gusci in acqua tiepida. Si faceva bollire del latte di mandorla, poi si metteva su un canovaccio e si strizzava sino ad ottenere una pasta consistente. Una parte si mescolava con zafferano, zenzero e cannella.
A questo punto si riempivano i gusci con la pasta di latte di mandorla bianca, a centro si metteva quella allo zafferano (gialla) e si finiva di riempire con quella bianca. Riempiti tutti i gusci, si mettevano a cuocere sotto la brace. Il risultato? …surrogato di uova sode,  con principi nutritivi equivalenti e dal sapore dolce-salato….



Ergo: le uova le fanno gli uccelli, se aiutandoci con la fantasia, crediamo che anche quelle riempite col latte di mandorla sono un prodotto degli uccelli, il latte di mandorla, sempre con tanta fantasia, può essere chiamato latte di uccello.

Maccarrùne...

La domenica è un giorno speciale : chi si riposa, chi fa sport, chi ne approfitta per fare quello che non può fare durante la settimana, comunque c’è un’aria di festa, che una volta si sentiva ancora di più perché si lasciavano gli abiti da lavoro e si indossava il vestito della domenica… scendevano in piazza e ‘a ‘merveràte, li riportava a casa, dove li attendeva il pranzo festivo,  e come ricordava una pubblicità, anche a pranzo oggi come ieri,  la domenica fa la differenza.
Regina della tavola domenicale è la pasta, la mitica  pastasciutta,  un piatto nazionale che oggi si è arricchito di  vari condimenti, ma di  origine povera... la pasta a sciotta – una pietanza ottenuta  facendo cuocere la pasta nel sugo di pomodoro  cotto con cipolla, aglio, prezzemolo  e poi allungato con acqua, a fine cottura conditi cu n’addòre de furmàgge.
Questo l’unico pasto caldo, unico perché era pranzo e cena insieme; caldo perché i contadini p’a filannégne , si concedevano la pausa  per mangiare il loro pane olio e sale accompagnato da cipolla cruda in inverno e dal pomodoro fresco d’estate.   La sera si ritrovavano in piazza in attesa che l’uomo di fiducia di qualche proprietario andasse a proporgli qualche giornata di lavoro. Il ritorno a casa a volte era felice, a volte triste ma a casa per festeggiare o per consolarsi   il pasto caldo era sempre quello: la pasta a sciotta.

Pasta e sugo di pomodoro questi gli ingredienti semplici e indispensabili del nostro piatto nazionale. Ardua la scelta del tipo di pasta , fresca o secca, di semola o all’uovo, lunga o corta, liscia o rigata, ripiena o bucata … comunque maccarròne, specialmente la domenica.
Una volta tutto si vendeva sfuso avvolto in fogli di carta porosa ma resistente che all’interno era grezza mentre la superficie esterna era di una tonalità di azzurro che ha preso il nome di “carta da zucchero”- ma avvolgeva anche caffè, e anche la pasta.
La pasta lunga aveva una lunghezza che era il triplo degli attuali formati che oggi troviamo impacchettati.
Nei pastifici, una volta chiamati proprio “maccaronerie” i formati di pasta lunga: spaghetti, vermicelli, bavette, bucatini e ziti, venivano appesi ad asciugare, questa operazione piegava i cannoli, formando una piegatura chiamata appunto gomito.
  (una foto trovata navigando per rendere meglio l'idea)
Gli ziti, fanno parte della pasta grossa, perché si tratta di pasta bucata di diametro di circa mezzo centimetro ma  nascono come  pasta lunga. Si usavano spezzati, con l’intenzione di ottenere fiscarule da circa 5 centimetri, operazione quasi impossibile, perché, essendo grossi e bucati,  mentre si spezzano si frantumano in modo più o meno frastagliato, formando delle schegge, la parte del gomito veniva lasciata intera, ma era anche più spessa  perché in quel punto  il “buco” per effetto della piegatura si chiudeva.
Una volta cotti e conditi, schegge e gomiti rimangono sempre sul fondo del piatto e raccoglierli insieme a tutto il condimento rimasto è una vera goduria… 
Forse proprio questa particolarità ha portato a considerare i "ziti" la pasta della festa e delle grandi occasioni...tant'è che il loro nome peer esteso sarebbe: "le maccarrune de le zite" (la pasta degli sposi) proprio perchè era la pasta usata durante i banchetti nuziali.

C'è chi sostiene che i maccheroni siano nati in cina, perchè Marco Polo nel suo "Milione" ne fa riferimento .
C'è chi sventola la paternità partenopea... come ricorda la deliziosa novella riportata nelle “leggende Napoletane di Matilde Serao:


La storia de le “maccarùne”
Al tempo di Federico II di Svevia, nella zona del Seggio di Portauova, in via dei Cortellari, vi era un palazzetto a quattro piani nel quale alloggiavano una « donna di facili costumi », uno strozzino ebreo, una coppia di truffatori, e uno stregone o mago di nome Chico. 
Il mago non si faceva vedere molto dai suoi « coinquilini ». Il suo domestico,  raccontava che questi, studiava sempre e si dava anche ad esperimenti chimici di  grande  interesse.
Ma tutti sapevano che ad una determinata ora ,  usciva dalla sua casetta una nuvola bianca che a volta imbrattava il bucato messo a sciorinare , ma  ciò che maggiormente  impressionava gli abitanti  dello stabile  e’ che si poteva intravedere il mago nella nube di polvere con le mani imbrattate di… sangue! Tutti avevano paura e non sapevano immaginare cosa egli facesse, anche se in effetti il pover’uomo non faceva male a nessuno, anzi con i suoi esperimenti voleva perfezionare una sua scoperta che avrebbe reso felice il prossimo nei  secoli a venire.
Un giorno, la bella e procace Giovannella di Canzio, che era la moglie, o quasi, di uno sguattero della cucina reale, tanto spiò che riuscì a scoprire cosa manipolava il mago ed imparò a fare i maccheroni ed il saporito sugo di pomodoro che da lontano era stato scambiato per sangue. Non appena si fu specializzata nella preparazione del piatto la furbastra tanto brigò,  tramite il marito, che riuscì ad arrivare a corte ed a fare assaggiare la sua specialita’ a Federico II che rimase così meravigliato che inconsapevolmente divenne il responsabile dell’etimologia del piatto: definì i sottili  fili di pasta  <<non cari, ma caroni >>.
Da quel momento  tutti vollero mangiare i maccheroni, i nobili vollero che i loro cuochi imparassero a farli e Giovannella divenne molto ricca e fece molte conoscenze. 
Il povero Chico, che era all’oscuro di tutto, ignorava che la sua ricetta gli fosse stata rubata, e lo apprese un giorno bruscamente , passando per un vicolo,vide per caso che in un basso si cucinava… la sua  invenzione. Disperato e  amareggiato, il povero buon mago fece fagotto e scappò via da Napoli.


Bella leggenda, ma anacronistica….al tempo di Federico II di Svevia, l’america non era stata ancora scoperta, quindi solo un mago poteva usare già i pomodori … Mah!...

Il condimento pe le maccarrune è lui...  il ragù e per fare un buon ragù le nostre nonne usavano:
carne di maiale tagliati a pezzetti - di solito vendrèsche (pancetta) che costava meno, carne di manzo  e carne di cavallo, olio,  aglio, cipolla, peperoncino e ½ bicchiere di prosecco bianco - per il soffritto, passata di pomodoro e sale.  La cottura era lunga,  a fuoco lento per tre, quattro ore, aggiungendo di tanto in tanto dell'acqua e in fine, a fuoco spento qualche foglia  di basilico...

...dopo aver condito i maccheroni col ragù, bisognav insaporire il tutto...come?

Chi se lo poteva permettere usava il pecorino nostrano, piccante e saporito, ma non per tutte le tasche.
Tutti avevano in casa a capasèdde de casericotte salàte, saporita e accessibile a tutti.
A volte non ci si poteva permettere ne' uno ne' l'altro.... allora per condire si usava a recotte asquante sciolta nel ragù. Ne bastava un cucchiaino, perchè il suo sapore forte e grintoso amalgamasse il tutto.
Oggi la ricotta forte è una prelibatezza per i palati più forti ma una volta costava poco perchè si otteneva utilizzando la ricotta invenduta che si lasciava inacidire impastandola con l'olio e sale (per evitare le muffe).
Si otteneva così il miglior surrogato del formaggio a basso costo.


martedì 17 maggio 2011

Il Santo delle donne.

No, oggi non è l’8 Marzo …. è il 17 Maggio e si festeggia San Pasquale Baylon,  che la tradizione popolare  meridionale, vuole “protettore delle donne”… 
si dice infatti che  il frate, alle donne che in confessione si “lamentavano del vigore” dei loro mariti, consigliasse di somministrare loro l’ovetto sbattuto con zucchero e vino.
Il popolo apprezzò molto i risultati di quella cura, tanto che  cominciò a considerare il frate come un santo, e  a chiamare il suo intruglio miracoloso “ 'a crema di san baione”  -  e per abbreviare:  "u' zabaglione".

Per questa bella invenzione San Pasquale Baylon è anche protettore dei cuochi.

Protettore dei cuochi…delle donne… ma anche delle zitelle in cerca di marito che lo invocano dicendo:
"San Pascale Bailonne
 protettore delle donne
 mannàteme nu marito
 viànche, russe e sapurito,
 come a vvuje tale e quale
 gloriosissimo San Pascale"

e le più acide continuavano col ricatto disperato…

…e ci no m'u face acchià jie no Te venghe cchiù a prijà.

domenica 15 maggio 2011

Caffè con "C" ed "M"

Dopo aver parlato del parrucchiere e del rito di “farsi fare i capelli”, vorrei parlare di un altro rito giornaliero: quello del caffè.
Quanti modi di preparare un caffè, c’è l’imbarazzo della scelta!  
• Caffè normale, ristretto, lungo
• Caffè ristretto macchiato caldo, ristretto macchiato freddo
• Caffè lungo macchiato caldo, lungo macchiato freddo
• Caffè ristretto macchiato caldo senza schiuma,etto macchiato schiumato
• Caffè normale schiumato
• Caffè normale macchiato caldo,
• Caffè normale macchiato freddo
• Caffè normale macchiato caldo con un pò di latte freddo
• Caffè ristretto in tazza grande
• Caffè ristretto in tazza grande macchiato freddo/caldo
• Caffè lungo in tazza grande (macchiato caldo/freddo/con acqua calda/fredda)
• Caffè americano
• Caffè normale con acqua calda/fredda
• Caffè normale con un cubetto di ghiaccio
• Caffè ristrettissimo con poco latte, ristrettissimo con tanto latte       
• Caffè ristretto in vetro, in vetro macchiato caldo
• Caffè in vetro, macchiato caldo/freddo, con acqua calda a parte, lungo)
• Caffè in tazza fredda, in tazza bollente
• Caffè bollente,  macchiato caldissimo
• Caffè in tazza grande con panna
• Caffè corretto grappa, whisky, Fernet, anice
• Caffè corretto schiuma
• Caffè ristretto in tazza fredda, ristretto in tazza bollente
• Espresso
• Espresso, ristretto,  molto lungo
• Brodo nero & caffè al volo
• Caffè corto, caffè basso
• Caffè macchiato lungo con acqua calda a parte
• Caffè lungo molto macchiato
• Goccia di caffè con crema di latte (paperino)
• Goccia di caffè con latte senza schiuma
• Caffè marocchino
• Caffè macchiato con cacao
• Caffè doppio
• Caffè doppio ristretto/lungo
• Caffè doppio macchiato caldo/freddo
• Caffè doppio ristretto (con latte freddo a parte)
• Una spremuta di brasil
• Una spremuta di arabica
• Caffè con cacao, con nuvoletta
• Caffè spumato
• Una spremuta di chicchi
• Un caffè con la barba
• Un americano macchiato
• Caffè francese
• Caffè al volo
• Un caffè leggero                                                                                                                                                                               • • Caffé con fiocco di panna                                                                                                           

• Caffè al ginseng, alla cannella, al cardamomo
Bevanda gradita ad ogni ora del giorno e in ogni occasione, a casa o al bar, per iniziare le relazioni sociali o per rompere il ghiaccio, per fare una pausa o per concludere un affare, per avere più grinta o per fermarsi a riflettere, il caffè è uno dei piaceri  della vita. E’ un rituale irrinunciabile da osservare diligentemente appena alzati, bevendolo  mentre si guarda il cielo della giornata, ascoltando le notizie del telegiornale del mattino, leggendo l’oroscopo. E’ il cerimoniale dell’ospitalità e dell’ accoglienza.
Charles Maurice de Talleyrand diceva: 
“Il caffè deve essere caldo come l’inferno,nero come il diavolo,puro come un angelo,dolce come l’amore”
Ben diverso e affascinante il proverbio turco che lo definisce:
nero come l’inferno forte come la morte, dolce come l’amore.
Come si dice, il caffè va gustato tenendo fede alle “3C” : “ comodo , carico e caldo”...
comodo - perché  va sorseggiato con calma stando seduti
carico -  perché deve essere forte e corposo
caldo – perché  va bevuto bollente
Ma le  tre C sintetizzano metaforicamente anche i requisiti dell’uomo da sposare… (Comodo - accomodante, Carico -  forte,   Caldo - appassionato );
 o più prosaicamente sono tradotte, dai napoletani   in “ Comme Ca22’ Coce”  (come brucia!).
Alle tre C di base, se ne possono aggiungere altre “accessorie”, perché il caffè, secondo i gusti può essere bevuto ”corretto” e secondo le opportunità “in compagnia”.
Ma se tutti conoscono le “3C”, non tutti invece conoscono l’esistenza delle “3M”:
Miscela –  ci sono vari tipi di caffè che sapientemente miscelati  danno vita a sapori unici e aromi inconfondibili.
Macchinetta –  dalla cuccuma o ciucculatèra alla napoletana alla moka fino alle moderne macchine “espresso”
Malizia- è quella infinita serie di accorgimenti che ognuno di noi acquisisce con l'esperienza e con l'amore per questa deliziosa bevanda. Malizia nel modo di macinare il minimo quantitativo di caffè, per evitarne la dispersione dell'aroma... di lavare la macchina del caffè…  di servire il caffè in tazze calde…  insomma, malizia in tutto.                                
Uno degli oggetti più affascinanti della mia infanzia era proprio lui  “ ‘u macinine”  - che trasformava i chicchi di caffè in polvere.
Usato da mia nonna ogni mattina e ogni volta che dovevamo fare il caffè che compravamo in chicchi che poi venivano macinati, volta per volta.
Ogni mattina era bello sentire il classico rumore del macinino e il bellissimo profumo che i chicchi appena macinati lasciavano nell’aria.
Io ero piccola e il caffè non lo bevevo ancora, ma appena possibile, mi piaceva rubare un chicco di caffè e tenerlo in bocca, gustandone aroma e profumo, mentre chiedevo alla nonna di farmi provare a macinare.
La nonna dopo i primi giri, che richiedevano più forza ed energia , mi faceva sedere vicino a lei, mi metteva il macinino sulle ginocchia e mi faceva “divertire” dicendomi come fare, mi sembra quasi di risentire le sue parole: <...No girà a' simèrse... cà se ròmpe!>
Il macinino della nonna era in legno, con una manovella a mano e un cassettino dove si raccoglieva la miscela tritata.
Certo nella sua lunga vita, 'u macinine da' nonne ha tritato caffè,  ma anche surrogati.
In tempo di guerra, quando c’era “la tessera” -  il caffè si vendeva di contrabbando, a caro prezzo, contando i chicchi, si usava arrangiarsi con surrogati artigianali. A prescindere dal caffè d'orzo, ancora oggi apprezzato da molti, i surrogati erano tanti a seconda della fantasia e disponibilità: radici di cicoria essiccata e tostata, fichi secchi, castagne, noci, arachidi, lupini, ceci,  fagioli,  dòleche (cicerchia).
Il caffè “originale” si usava solo per le feste e quando arrivavano ospiti, e la posa non si buttava, ma si faceva asciugare e si miscelava al surrogato per “aromatizzarlo”.
Oggi  ‘u macinine d’a nonne” è “in pensione”  e si spara la posa di oggetto d’antiquariato, un cimelio che la zia conserva gelosamente, ed io spero un giorno di poter “ereditare”.
Il caffè è ottimo amaro ma di solito viene zuccherato. Ma l'azione di "addolcire" il caffè non è solo una questione di gusto.
Oggi sui banconi dei bar troviamo i cestini con le bustine monodose di zucchero raffinato, zucchero di canna, dolcificante, ma ricordo che un po di tempo fa,  la reginetta del bancone dei bar  era la cara vecchia zuccheriera.
Ci si serviva col cucchiaino lungo che con un preciso meccanismo a bilancino, alzava il coperchio della zuccheriera, sempre generosamente pronta ad addolcire le nostre ordinazioni… Un cucchiaino, mezzo, un quarto, due terzi, una punta, mezza punta,una puntina … tacco e punta ...
Era semplice, divertente, pratico ed economico, perchè non prendevi mai più zucchero di quanto, obiettivamente, ne occorreva. Ma era anche un momento che poteva rivelarsi galante e che i “marpioni” di turno non si facevano sfuggire. Appena adocchiata la donna sola che aspettava tranquillamente il caffè che aveva ordinato, …lo sconosciuto di turno si avvicinava con disinvoltura e appena il barista arrivava con la tazzina di caffè,  con aria  sorpresa, come se si accorgesse solo in quel momento della presenza femminile, colto da un servizievole scrupolo di coscienza, si precipitava ad afferrare il cucchiaino della zuccheriera e con fare da tombeur ( trombeur) de femmes  chiedeva: < quanto ne metto, signorina?>   
Cosa rispondere?   <Mezzo!!!>…<un quarto!!!> ... <Una punta!!!>  
 Meglio limitarsi ad un semplice sorriso e accettare la galanteria senza equivoci con un semplice <un cucchiaino, grazie> - e poi troncare  l’approccio dicendo  che siamo di fretta….e sgattaiolare fuori, sperando che il tizio non  ci segua!
Ma quando ho cominciato a gustare il caffè amaro…è finito anche questo rituale imbarazzante perché  dopo il  <grazie , lo  bevo amaro>… l’approccio fallisce  sul nascere….e i bollenti spiriti…congelati, e nello sguardo dello sconosciuto si legge: “Oh! questa non me l’aspettavo!”
Ho potuto constatare che una persona che beve il caffè amaro, viene guardata con sospetto e ammirazione e scatena osservazioni del tipo: “Nooooo!”… “Ma come fai?”…   “Ma niente niente proprio?....”Che coraggio!!!”  e gli epicurei della psicologia spicciola, credendosi Froid azzardano: “Pensa che carattere!!!”… i nuovi peripatetici filosofi di strada invece, sospirando sentenziano il loro:”…è tanto amara la vita”…
Macchè! Nessuna implicazione gene-psico-filosofico-attitudinale, solo una sana voglia di bere una tazza caffè…senza fretta...chiudendo gli occhi e gustandone prima il profumo, poi sorseggiarlo assaporandone il gusto denso e aromatico… e con tutti questi ingredienti … non c’è bisogno di zucchero!
Il caffè misura anche i ritmi della vita:
...se ristretto, ingoiato velocemente, quasi senza accorgersene
...se amaro, fa strizzare gli occhi
...se macchiato, induce alla scarpetta 
ma ora comincia a far caldo, il tempo cambia, anche i tempi del caffè diventano i tempi del ...caffè in ghiaccio.
La tazzina lascia il posto al bicchiere con cubetti di ghiaccio, zucchero (o latte di mandorla) e… Caffè.
 A differenza dell’espresso, da bere bollente stando in piedi al bancone del bar, il caffè in ghiaccio deve rispettare dei tempi e l’attesa è una filosofia, è un'interpretazione del tempo che scorre sciogliendo il ghiaccio che lentamente  si unisce al caffè, …  ci vuole tempo.
Il caffè in ghiaccio è un caffè dai  tempi lenti, con gli occhi in contemplazione nei cubetti di ghiaccio prima di sorseggiare  il caffè  che scende liscio come dissetante acqua, eppure è Caffè...
Gustando estasiati tale delizia, capita anche di esclamare: < Jàte a ci l'ha 'nvintàte!>...
Questa bella idea illuminò Antonio Quarta, al secolo don Antonio, che in quel di Lecce,  pitturava volte e pareti colorandole e decorandole con angeli, puttini e amorini, pensando alla sua passione…il caffè, e al suo sogno… un bar, per ristorare la gente con un buon caffè.
Nel 1946, subito dopo la seconda guerra mondiale, appena ne ebbe l’occasione, appese al chiodo tavolozza, pennelli e colori e aprì un bar  - L’”AVIO BAR”, vicino al Teatro Politeama.
Lo chiamò “Avio” perché il locale era frequentato principalmente dagli avieri dell’aeroporto di Galatina, in onore dei quali usò anche il colore della divisa per la confezione della sua miscela.
Con un tostino a mano ella portata di 5 chili,  preparò con caffè centroamericani,  la prima miscela “Avio” (denominazione del bar, nonché marchio della ditta), e con una macchina a leva produsse un caffè fragrante e cremoso.
Negli anni ‘50   l’”Avio bar” è ormai un punto di riferimento e di incontro a Lecce.
Per rinfrescare i clienti si usava il caffè freddo, preparato in grande quantità e conservato in frigo, ma  durante il giorno quel caffè si inacidiva  o comunque perdeva la fragranza iniziale.
Antonio si accorse che  ci voleva  una bevanda che  tonificasse e attenuasse la sete durante le lunghe estati salentine - così,  ideò la sua ricetta: fece il caffè normalmente, lo zuccherò e poi lo versò ancora bollente in un bicchiere dove aveva messo in precedenza alcuni pezzi di ghiaccio secco, staccati con il punteruolo dai grande blocchi che egli stesso produceva in una sua fabbrichetta.
Così nacque  il famoso caffè in ghiaccio,  e fu un successo, che ha portato Antonio Quarta, la  sua miscela e  il suo “Bar Avio”  a pieno titolo nella storia del caffè.

E per concludere questo  post bisogna parlare del Kopi Luwak ...
Se avete visto “Non è mai troppo tardi” , il film con Jack Nicholson e Morgan Freeman, avete già capito che sto parlando di caffè, anzi del caffè  più buono, più raro e più costoso del mondo.
Non è una miscela di caffè pregiati … arabica … robusta …
Non è il real messicano, il blue brasiliano o il gold peruviano...
... viene dall’Indonesia e trattasi di caffe “riciclato” Il cui gusto originale è dovuto al particolare tipo di “torrefazione”.  
Mi spiego meglio:
In Indonesia esiste un animale chiamato luwak – trattasi dello zibetto chiamato anche “civetta delle palme”  o “civetta del caffè”  –  un roditore ghiotto di caffè, va alla ricerca delle bacche più rosse per farsene delle scorpacciate, poi, dopo averle digerite le “rilascia” sul terreno. I chicchi evacuati,  che a contatto coi succhi gastrici dell’animale, si arricchiscono di enzimi zuccherini che conferiscono una “tostatura naturale”, vengono raccolti e tostati.
La naturalezza fisiologica del “procedimento”  non  spiega un prezzo di  €  500,00 / kg – ma la risaputa “stitichezza” dell’animale, che consente di produrne circa 250 kg / anno – devia la curva economica della domanda e dell’offerta capitolando a favore di una peristalsi di mercato e conseguente impennata del prezzo.  
 Probabilmente qualcuno lo avrà già assaggiato. I Lino’s coffee lo stanno proponendo già dall’anno scorso …Gold coffee … animal coffee  … gourmet coffee beverage … caffè indonesiano … caffè della civetta …
chiamiamolo come vogliamo, ma pur costando da 5 a 9 euro a tazzina, sempre caffè di   m_ r _ a     è!

venerdì 13 maggio 2011

Da Capéra... a Coiffeur

Il sabato noi donne dedichiamo la giornata a farci “acconciare per le feste”. Un nuovo taglio un nuovo colore, chi ha i capelli ricci se li fa stirare, chi li ha lisci se li fa arricciare, le brune si fanno rosse, le more si fanno bionde, le bionde si scuriscono…. Insomma per vezzo, nessuno si accontenta! 
E chi deve assecondare i nostri capricci?
Il coiffeur,  oggi si chiama così perché il francese fa più chic; una volta semplicemente parrucchiere.
E’ una figura professionale molto importante perché il suo lavoro non si limita a migliorare l’aspetto esteriore ... ma anche quello interiore.
Il salone del parrucchiere è infatti un luogo di ritrovo per noi donne, che neanche fossimo dallo psicanalista, in questo posto, tra una tinta e una messa in piega, coccolate dai piacevoli lavaggi- massaggi della parrucchiera,  cominciamo a parlare dei nostri affanni  e ascoltiamo gli sfoghi di tutte le altre “amiche di bigodini”.
Dopo il “lavaggio di testa”,  ci ritroviamo più belle, ma anche più “sollevate” nella consapevolezza che le altre non stanno meglio di noi, ma soprattutto più “aggiornate” e desiderose di sfoggiare il nostro nuovo look e di rivelare le  notizie locali carpite in “anteprima”.

Le nostre nonne ostentavano con orgoglio i loro capelli bianchi,  simbolo di vita vissuta,  di saggezza  e quindi degni di rispetto, ma anche loro, dietro la loro matriarcale severità, nascondevano  delle fantasie e dei vezzi che erano, sono e saranno sempre il baluardo della femminilità. Non sfoggiavano acconciature strane , i loro lunghi capelli erano sempre legati, intrecciati e accrocchiati  “a tuppo” , e quasi sempre coperti da fazzoletti. 
I capelli li lavavano una volta al mese, ma tutti i giorni, mattina e sera li pettinavano a lungo, passandovi  ‘a pèttenesse a denti stretti.
I capelli lunghissimi erano faticosi da pettinare e la mattina, le donne di casa si pettinavano a vicenda, oppure chiamavano ‘a capéra – la pettinatrice ambulante – che girava casa per casa ad acconciare le signore. Era  sempre ben ricercata nel vestire e ben pettinata, quasi fosse un modello per la clientela, sia popolana, che aristocratica. Di solito si trattava di donne nubili o vedove che per  tirare avanti facevano questo mestiere che non portava grandi ricchezze in quanto spesso era ripagato in natura.
‘A capèra girava tutta la mattina  per vicoli e postierle, ascoltando le lamentele delle clienti difficili ed esigenti – e dato che la cosa non era sempre piacevole, fu coniato il detto : " Le solde de  capére sapene fele".  (i soldi della pettinatrice sono amari come il fiele).
Faceva sedere la signora su di una sedia, le scioglieva ' il tuppo ' e dalla borsa  tirava fuori i ferri del mestiere:  pettini e forbici, borotalco e olio di ricino…si il famoso purgante , che passato sui capelli li rende più facili da pettinare rendendoli lucidi e rinforzandoli.  Allora era facile che in testa alla signora alloggiasse qualche ospite indesiderato,  lei sapeva come eliminarli, frizionando del petrolio…ma  appena usciva tutto il rione sapeva che donna  “Comesechiama tenèva 'a capa chiene de piducchie e de lìnini” (pidocchi e uova di pidocchi).
Involontariamente veniva a conoscenza dei fatti che le clienti raccontavano, divenendo suo malgrado anche loro confidente.
Ma questa poliedrica attività le affidava anche le mansioni di  sensale di matrimoni, procacciatrice d'affari e non ultima la più pericolosa: l'informatrice dei fatti altrui.                                                                                  Diventava l’ amica di tutte, sapeva farsi raccontare le più intime confidenze …e provvedeva a diffonderle subito anche se giurava che nessuno avrebbe saputo niente.
Se in casa notava qualche ragazza un po' attempata che non si era ancora sistemata, proponeva subito un matrimonio , vantandosi di quelli già combinati e ben riusciti. Logicamente i familiari abboccavano e le facevano regali affinché la cosa si facesse al più presto.
Era anche una procacciatrice d'affari, se tenevate qualcosa da vendere o comprare, chi meglio di lei poteva fare da “porte e nùsce” (passa parola) tra  la sua selezionata clientela, facendo alzare il prezzo.
Ma lei commerciava in capelli, utilizzati poi per fare parrucche. A lei si rivolgevano le donne che per tirare avanti a volte erano costrette persino a vendere le loro trecce, in cambio di qualche soldo per sfamare i bambini.
Era un arte nobile, un arte di fiducia…  tanto che se una signora in un momento di debolezza le confidava di aver catturato l’attenzione di qualche giovanotto, mezz'ora dopo tutto il quartiere sapeva che il marito  teneva le corna…
per questo nel linguaggio comune -"Capera" è sinonimo di donna pettegola.

martedì 10 maggio 2011

De San Catàvete

Il 10 maggio si ricorda San Cataldo e Taranto e i tarantini già da domenica scorsa festeggiano  il loro Patrono.
C’è chi aspetta di partecipare a   “u’ prègge” ,   chi  di vedere la Statua del Santo,  la processione a mare,  i fuochi d’artificio al castello, le bancarelle nella città vecchia per comprare  “cupète, nucèdde e   fisckarule”.

Ma mai come quest’anno i tarantini hanno atteso la festa del loro Santo Patrono per poter finalmente festeggiare il caldo e la bella stagione dopo un autunno e un inverno uggiosi e piovosi come pochi ricordano. 

Cos’ha a che fare San Cataldo col tempo?
Non lo so, probabilmente niente, ma per i  tarantini che la bella stagione arrivi con San Cataldo è una certezza confermata da vecchi proverbi, come il famoso :
 

“De san Catavete se ne vè ‘u fridde e avene ‘u cavate”
che rassicura sull'inizio della bella stagione, e il meno conosciuto:
 

“ ce de masce no’ arrive l’otte no’ te scè luànne cappidde e cappotte ”
che sconsiglia di non riporre i capi invernali prima dell'8 maggio, perchè il tempo anche se mite è sempre soggetto a cambiamenti repentini. 


Per i cataldiani, la festa di San Cataldo è l’appuntamento con l’estate.
Per tradizione dopo la processione a mare, nelle case le donne preparavano le cangiàte,teratùre, candaràne,  càsce e cascettùne,  le robbe de cuttòne, p'arrepà le robbe de làne . tirando fuori da
Per il 10 maggio, con qualsiasi tempo, tutti indossavano abiti estivi:  cazùne de line e vunnèdde de sete pe' scè a’ Chiazza Granne (Piazza Fontana) pe scè sendere le bannìste su a' cassarmòneche.

lunedì 9 maggio 2011

Le fesckarùle de le ruagnare.

A Taranto,   in occasione della festa patronale,  c’era,  e per fortuna c’è ancora,  l’usanza di  comprare “’u  fesckarùle” – un fischietto in terracotta  colorato e di varie forme, realizzati da “le ruagnare” tarantini che in questa occasione, sullo spiazzo antistante l’Arcivescovado – anticamente chiamato “u Calvarie” -   allestivano una fiera detta  “A’ fère d’u ruagnàre”  (la fiera del vasaio).
E’ doveroso ricordare i “ruagnare” più famosi come:  Nicola De Michele, Luigi Proietti e Giovanni Faggiano.

Le fesckarule sono oggetti belli da collezionare ed esporre come  oggetti ornamentali, ma anche da suonare. Di varie  dimensioni, dai colori vivaci e dalle forme spesso bizzarre di clarinetto, di trombette,  di tarallo, ma anche  dalle sembianze umane:
- Pureginedde cu ‘u cuppulone (Pulcinella col cappellone) – simbolo del carnevale e dell’allegria;
- Il monaco o il prete - parodia al potere clericale;

E il famosissimo  carabiniere, in piedi e a cavallo  - parodia del potere costituto;

E più recentemente anche  “Marche Polle” – tipico personaggio della Taranto anni ‘50

Fisckarùle  a forma di animaletto, da quelli da compagnia come il cane e il gatto, a quelli da cortile come :
il porcellino – simbolo di prosperità;
e il gallo -  simbolo di sessualità per l’analogia tra la potenza virile e il fischio, usato dai maschi di alcune specie animali (tra cui l’uomo) come richiamo alle femmine, per questo il galletto è il fischietto che il ragazzo regalava all’innamorata.

Insomma di fischietti in terracotta ce ne sono sempre tanti e tutti belli, per questo ogni festa non è festa senza fisckarùle...

domenica 8 maggio 2011

‘U pregge

Ogni anno l’8 maggio, con la tradizionale processione a mare, entrano nel vivo, a Taranto, i festeggiamenti in onore del Santo Patrono,  San Cataldo, invocato dal popolo con questa preghiera:

"San Catàvete mije benìgne,
de priarte 'no ssò dìgne;
cume a nuèstre protettòre,
prije tu nuestre Signòre;
libberéne San Catà,
da frascélle e da tramòte,
da furmene e tembeste,
da uèrre, fame e pèste!


Durante la Messa prima della processione, nella Cattedrale, a lui dedicata, avviene la suggestiva cerimonia chiamata ‘U pregge de San Catavete (il Privilegio di San Cataldo),  ossia la consegna della statua di San Cataldo al Sindaco da parte del Capitolo Metropolitano.
Anticamente questa cerimonia prevedeva un atto scritto, redatto alla presenza di un notaio, in cui  le autorità ecclesiastiche prescrivevano il comportamento che le autorità e i cittadini dovevano avere nei riguardi del Santo, e le autorità civili  prendevano in consegna la Statua accettando ogni condizione e assumendosi ogni responsabilità.

Anche in questo caso la fantasia popolare mantiene viva questa tradizione.
Un detto popolare recita che “San Catavete è amante de le furastière” (San Cataldo è amante degli stranieri) – tanto è vero che per uscire dal Cappellone a lui dedicato sembra che San Cataldo si facesse pregare dai tarantini.
Perpetuando questa tradizione, ancora oggi il sindaco di Taranto raggiunto il Cappellone, rivolgeva al Santo la frase «Esci Cataldo il rosso!» - dove l’aggettivo “rosso” starebbe ad indicare il colore rosso dei capelli del Santo di origine Irlandese.
Da questo nasce la cerimonia d’u pregge, ossia il “privilegio” che il Santo concederebbe ai tarantini di essere portato in processione "pe terra e pe mare".