mercoledì 27 luglio 2011

La notte della salsa

L’estate è la stagione delle ferie, delle vacanze,  del divertimento.     Tra un concorso, una festa  e una sagra, troviamo spesso una notte:  notte delle stelle cadenti, notte bianca,  notte di note, notte della taranta … e tra le varie notti quella che mi ha ispirato è “la notte della salsa”. 
L’invito a passare una notte scandita dalla musica latino americana,  dal ritmo sensuale, coinvolgente …  che fa subito estate, a me ha riportato alla mente odori e sapori antichi di una ritualità  in via d’estinzione.



Proprio come in questo “picco d’estate”,  nei giorni in cui il caldo era più afoso e a’ faugne toglieva le forze, il fiato e la voglia di fare, la sera seduti n’anze a casa,  la delegazione femminile del consiglio di famiglia composto da mamma, nonne e zie, decretava     s’hanna  fa le pummedòre… 
Questa frase mi rendeva felice perché da bambini ogni cosa è un gioco, anche se mi chiedevo: ma perché proprio adesso con questo caldo?    

Poi da grande ho capito che l’antica formula  vuole  il risultato direttamente proporzionale alla fatica.
 
Mi divertiva ascoltare i discorsi dei grandi che decidevano che pomodori comprare
< le pumedore de manduria  o le sammarzàne?>
Dopo aver concluso di comprare  cannuèle e fiaschette, si passava e decidere le quantità:
<a me nu’ quindàle de mandurie  ca a salse avène nu zucchere >
<ije vogghie le sammarzàne  ca rendene assaje decchiù >
<ije  st’anne nonge l’hagghie fatte, menumale ca me l’ha prestate mamà…>


Dritt’e stuerte ognuno diceva la sua e quando si arrivava a decidere quanti pomodori comprare, ci si accorgeva anche che era giunta l’ora di andare a letto e si sentiva una voce:
< S’ha squasciàte u’ capasòne….. ognedune a casa sove >
così si passava alla buona notte, non prima di aver fissato l’appuntamento per la mattina dopo, per comprare i pomodori.

La mattina dopo alle sei già tutti svegli. La macchinetta del caffè sul fuoco gorgogliava diffondendo il tipico profumo del buongiorno.   Verso le sette il consueto suono delle campane, seguito dal tanto atteso:
< Pomodoooori!....Pomodori  per la salsa!..., pomodori per bottiglie!...> 
Erano in molti a vendere pomodori, e ognuno aveva il suo venditore di fiducia, sempre lo stesso,  anno dopo anno, salvo cause di forza maggiore. Quel grido era inconfondibile! Era lui! Biasìne, il nostro pomodoraio di fiducia!
Mia mamma e le mie zie seguivano mia nonna e uscivano  dirette verso il camion. L’addetta alle trattative era la nonna,
<Come so le sammarzane stà’nnate Biasì?>
<Singère, vìde vì ! Arranga arranga vonne, fa cunde ca s’ha sdevacàte u’ cammie>
<…e pumedore de manduria ne tiene? ….. no ne sto veche…>
<E no u sapìte ca quidde so chiù picche, no pozze accundentà tutte quande, ma statte scuscetàte, pe le cliente come a vuije stònne sempre.>
<e fammene do quindale … e do quindale e mienze de sammarzane>
Mentre prende le casse per misurarle  promuove i suoi pomodori dicendo
<na signò … vìde c’è tenghe!>


ma la nonna non si fa abbindolare …….
<…si sì, l’apparàte de suse è bone….>

A quest’affronto  il venditore sdevàghe ndèrre na cascia esclamando
< none no, pare pare so’! Come sùse sotte!>
<…cussì pare! me raccomande lieve le casce  e fa’ buon peso ... falla calà a statère!>


Bott’e risposte nonna contrattava anche il prezzo mentre la delegazione maschile di famiglia cominciava a portare in casa le casse sistemandole fuori sotto una tettoia fatta di cannìzze dove rimanevano un paio di giorni, perché  uno dei dogmi procedurali vuole che i pomodori devono “riposare” prima di essere lavorati.

Intanto sempre le maschele venivano mandati “abbàsce le candìne” e “suse le tramenzàne” per riesumare le casse di bottiglie vuote, la macchina della salsa, le buste dei ramini e “a’ macchinetta p’attappà le buttiglie” , catare, catariedde, e catarotte, càte, limme e   furniedde 
Il  giorno dopo, si lavavano le bottiglie e si facevano asciugare al sole, poi si mettevano in casa suse e sotte  a banche.
La maggior parte erano “trequarti” di Raffo , ma c’erano anche le vecchie bottiglie di Fanta da litro, quelle di vetro marroncino...
Ora tutto era pronto
Il terzo giorno  era quello conclusivo. Per evitare sole e caldo, ci si alzava alle tre, si parlava il meno possibile e pianissimo per non dare fastidio ai vicini.
Le maschele preparavene u fuèche, le piccìnne e le femmene  procedevano alla lavorazione dei pomodori.
La prima cosa era togliere  i pidicìni ai pomodori, poi si lavavano e si passavano indre u’ cate dove venivano sprangiuti  immergendoli in acqua per evitare gli schizzi dei semi.
I pomodori sprangiuti  venivano cotti in enormi catare di alluminio.

Durante il tempo di cottura dei pomodori, le maschele montavano la macchina della salsa, mentre i bambini provvedevano a lavare le foglie di basilico da mettere poi nelle bottiglie.

Quando i pomodori erano cotti, si procedeva a passarli alla macchina da dove usciva una salsa rossa fumante e profumata  che cadeva in grandi limmi da dove veniva presa  c’u cuppìne,  e c’u’ mute s’anchievene le buttiglie, che una volta tappate coi ramini venivano sistemate in  enormi caldaie per essere bollite.  Bisognava fare attenzione a non lasciare spazi,  che durante la bollitura avrebbero  potuto provocare urti tra le bottiglie con conseguente rottura.  Per questo tra le bottiglie venivano messi degli stracci.

Il tempo di cottura secondo mia nonna doveva essere di un’ora, ma spesso e volentieri , eludendo la sua vigilanza, il fuoco si spegneva dopo quaranta minuti, che tutti gli altri ritenevano sufficienti.
Una volta bollite le bottiglie dovevano raffreddare.
Lavate e messe a posto tutti le coppe  usate e la macchina della salsa, il sole era già alto e si faceva colazione con l’acquasale  che la nonna aveva preparato mettendo da parte una coppa de sumènde, quando si spràngevene le pumedòre. L’aveva condita  olie sale e cipodde  e ci aveva messo dentro le fette di pane……
U’ dalle e dalle era finito e quel pane  ci voleva proprio.
Dopo la colazione si uscivano le mante con cui coprire le bottiglie di salsa una volta uscite dalle caldaie.
Ma quante te gire e vuète e arrive menzadie , anche al pranzo provvedeva mia nonna che preparava i suoi buonissimi 
Pummedòre scatteresciate
Un piatto tipico della cucina semplice,  povera di ingredienti ma ricca di gusto.
Per preparli faceva  riscaldare l’olio in un tegame, quando fumava  ci calava i pomodorini interi, condiva con basilico e capperi, metteva il coperchio e lasciava cuocere.
Dopo qualche  minuto i pomodori cominciavano a scatterisciàre (esplodere) e in un quarto d’ora sono pronti da gustare con fedderosse (bruschette) , muerse (pezzi di pane fritto) o frisèdde.
 
E’ vero che l’usanza estiva di fare la salsa si va perdendo, complici  le “offerte” convenienti  di pelati e passate, nei nostri supermercati, e il prezzo troppo alto dei pomodori, che non va al di sotto di 0,45 cent/kg - alleati della nostra poca voglia di  “’nzivamiento”.
Comunque i fedelissimi della salsa “fatt’ a casa” esistono ancora, e sono tanti. Motivo  per cui si vedono girare ancora “trerrote” carichi di “cascette” con cartelli del tipo…”POMODORI PER BOTTIGLIE”…

Quello che invece si è perduto è la preparazione de “ A’ CUNSERVE”.
Molti credono sia la stessa cosa, ma non è così. C’è una differenza sostanziale tra salsa e conserva:
-   La salsa è il succo del pomodoro, che dopo la spremitura e la bollitura viene imbottigliato;
La conserva è il concentrato,e la sua preparazione richiede tecniche e tempi diversi.
Per ottenere “ a cunserve”  i pomodori ben maturi, si mettevano a cuocere in una  “càtara” (caldaia), con abbondante basilico, cipolla tagliata sottile e sale. Quando si ammaccavano, venivano tolti dal fuoco e passati alla “strattiera”, una sorta di grattugia sulla quale venivano schiacciati a mano. La salsa ottenuta veniva raccolta in “piatte riale” di creta che si esponevano al sole, sulle terrazze, dove i raggi del sole sono più diretti. Sui piatti si stendeva un velo per proteggere la conserva dall’assalto delle mosche e intorno ai piatti si usava mettere un rametto di àlaure (alloro) contro gli spiriti maligni.
Di sera i piatti venivano riportati in casa per evitare che l’umidità della notte e la rugiada del mattino, distruggessero l’opera del sole che era  l’unico responsabile della riuscita della conserva.
Si lasciavano al sole per giorni e giorni, rimescolando spesso il contenuto con una “cucchiara” di legno, sino a quando il composto, evaporando, si restringeva diventando denso e di colore rosso scuro tendente al marrone. Si amalgamava con  dell’olio d’oliva  e si riponeva in capase smaltate con “tampagni di legno che prima di essere utilizzati, venivano messi a bagno in acqua per qualche ora così gonfiandosi, garantivano una chiusura ermetica del recipiente.
Queste capase venivano poi bollite a bagnomaria per circa mezz’ora, prima di essere gelosamente custodite per le giornate invernali, quando ne bastavano pochi cucchiai, opportunamente sciolti in acqua calda e conditi con olio e peperoncino, per dare alla pasta  la dignità regale e il sapore della festa.

 

lunedì 11 luglio 2011

Loggia della Libera Mitilerìa … e potere cozzaro

Libera riflessione di una libera Cozzara, dedicata a chi aspira a diventare libero cozzaro, perchè tutti hanno il diritto di essere informati sulla Libera Mitilerìa.

Di solito si confonde la Grande Zoca di TarantoNostra con altre associazioni.
Secondo i princìpi della Mitilerìa, solo la Grande Zoca di TarantoNostra è regolare.
Esso è il solo Ordine, in Taranto, in Italia, in Europa e nel Mondo,  che può conferire la qualità di Cozzaro d’Argento e Cozzaro d’Oro ai  postanti nel Grande Forum Tarantino di Taranto Nostra ; di conseguenza la Grande Zoca di TarantoNostra è riconosciuta dai maggiori Siti tarantini   perché l’unica a perpetuare il Rito cozzaro tradizionale.                                                                                                               
Si potrebbe erroneamente pensare che la libera Mitilerìa  sia una società segreta, ma non è così.  Essa lo è tanto poco che gli affiliati sono tutti conosciuti  e  conoscenti,  quello che scrivono è sotto gli occhi di tutti e le loro riunioni sono filmate su U’Tubbe.

All’inizio i mestieri erano riuniti in corporazioni che prevedevano la progressione evolutiva da Apprendisti a Compagni d’Arte ed infine  Maestri.
Una tra le corporazioni più prestigiose era quella dei cozzaruli e dagli arnesi di lavoro che questi usavano provengono i simboli della cozza nera, il tappo della Raffo, la fiocina, l’ancora:
La cozza nera – simbolo della libertà mentale – come bisogna aprire la cozza per poterne gustare il  sapore, così bisogna aprire la propria mente per capire meglio noi stessi e quello che ci circonda.
Il tappo della Raffo – simbolo di purificazione – come l’acqua , capace di lavare ogni impurità, così è la birra per i cozzari.
La fiocina – simbolo di ordine morale e sodale – per garantire la tranquillità a volte è necessario colpire.
L’ancora – simbolo di appartenenza –  che assicura e garantisce l’attaccamento alla propria terra.
Mentre origine diversa ha l’espressione Loggia – ossia, il balcone da cui si affacciavano le mogli dei cuzzaruli, quando i mariti, all’alba si allontanavano in mare con le loro paranze.

Nell’ A.D.  1999 il G.A. (Grande Architetto) e M.V.(Maestro Venerabile) fondatore fondante di TarantoNostra, nonché G.P. (Grande Presidente)
e il G.S. (Grande Sinneche)  ministro del Culto zocàtico  nonchè G.M. (Grande Membro) della Loggia del CdR, 
assistiti da vari Cozzari d’oro e d’argento, scrivono le prime regole di quella che diventerà la Carta della Mitilerìa moderna, sancendo di fatto la nascita della Libera Taranto Nostra come oggi la conosciamo.

Nell’ A.D. 2007  la Libera Mitilerìa si apre ad innovazioni sostanziali, come l’estensione del conferimento della qualità di Cozzaro d’Argento anche alle donne,  arrivando a nominarne ben tre.
In questo stesso anno tale conferimento si estende dai lidi Cataldiani alle Orobiche lande sino a diffondersi  al continente europeo, dove raggiunge Barcellona.

La Libera Mitilerìa non da potere, è essenzialmente una ascesi - un modo di perfezionamento cozzaro, finalizzato al miglioramento e perfezionamento individuale,  fondamentale per il conseguimento del bene e del progresso generale -  il cui sunto simbolico è:
Una cozza isolata, per quanto bella e buona è inutile.
La sua finalità è di essere sistemata con altre cozze,
allo scopo di formare la zoca, in un certo ordine  di grandezza.
Nessuno è obbligato a divenire Cozzaro d’Argento.
L’ ascesi facoltativa  è conveniente a certi spiriti, ma è deleteria per altri.
La libera Mitilerìa si rivela all’affiliato prescelto a sua insaputa.             
Il cozzaro non saprà chi lo ha eletto e non rivelerà le proposte di nomina.

L’affiliazione alla Libera Militerìa, è vincolata alla partecipazione dei neofiti ad un rituale. Lo scopo del rito iniziatico è suscitare l’interesse iniziale per le cozze.
Per questo il rituale è la  convenscion , a cui partecipano il G.S. (Grande Sinneche)  Ministro del culto zocàtico  e altri cozzari.
Durante le convenscion  lo spirito goliardico cozzaro esplode, il primo “tuzzo” è, obbligatoriamente, dedicato alla Raffo  e non devono mancare delle portate, rigorosamente a base di cozze.

Contriamente ad una convinzione assai diffusa, il Libero Cozzaro può andare via quando vuole, senza neppure dover motivare – altrimenti non sarebbe più libero e neanche cozzaro.

domenica 10 luglio 2011

Il mitile ignoto

I tarantini sono molto legati al mare e ai suoi frutti, particolarmente alle cozze, anche se di solito  "cozza" viene definita una donna poco gradevole, mentre  il termine "cozzaro" indica una persona rozza. 

Ma cosa sappiamo dei mitili? ....poco o niente ... nulla! ..... l'ignoto....

Il mitile ignoto
Chi era costui?...una cozza di genere sconosciuto....che cresce e si moltiplica nelle acque di 
     Tarantonostra.
.....Un essere abituato a sguazzare in acque torbide, nelle quali trova nutrimento, filtrandone le  impurità.
.....Un essere dalla corazza dura.....ma con un cuore grande, generoso,  nutriente e saporito.
.....Un essere che rimane per tutta la vita, legato alle sue origini, alle tradizioni:
     - leggendo classici di avventura, come  "Il cozzaro nero"
     - ascoltando canzoni d'altri tempi....le bellissime e intramontabili ever green   
        come  "Anima e cozze"
     - guardando i films preferiti sono quelli della vecchia scuola, che narrano 
        spaccati di vita d'altri tempi, in una versione realisticamente e
        drammaticamente comica come  "Cozze, limone e fantasia".

Ma la morte sua è in cucina.
A tutti noi capita di partecipare a qualche "Cena delle cozze" che si conclude alla perfezione, con un bel bicchierino di "Calamaretto di Saronno".
Ma anche se molto apprezzate, queste cene possono avere dei postumi poco piacevoli.
Spesso chi esagera nella loro degustazione, abusando della loro versatile, variegata e a volte avariata bontà .......si ritrova a dissentire, non per convinzione o per cattiveria, ma per......dissenteria.
Il mitile ignoto non ha vita facile, e se riesce ad evitare la padella......con molta probabilità non riuscirà ad evitare la brace....
il fuoco artistico lo divorerà e lui nel purtuso sfogherà il suo febbricitante delirio .....finchè un giorno, a sua insaputa non sarà proclamato "Cozzaro".....

....Il cozzaro d'argento......oggi un mito...domani chissà.......un mitomane?

martedì 5 luglio 2011

Ma fa caldo!

In una pubblicità di merendine, si vede una bambina che appena alzata cerca di scappare fuori casa a giocare, e alla mamma che le ricorda di fare colazione lei risponde: <Ma fa caldo!>…..
E come darle torto! D’estate si ha sempre voglia di fresco, anche di cibi freschi e bibite dissetanti e rinfrescanti. E cosa c’è di più buono, fresco, nutriente di un prodotto della nostra tradizione?
Da piccola amavo l’estate perché potevo chiedere a mia madre “Pane ollo e popò” – che nel linguaggio post- lallazione,  indicava proprio la frisella, olio e pomodoro! – che adoravo!

Quanto gusto e quanta freschezza  nelle nostre  “FRISEDDE”!
Ingredienti essenziali, gusto autentico e una fragranza solare.
La frisedda racconta l’umanità di gente povera ma dignitosa, sfruttata ma non rassegnata, che per mare o in campagna ha sempre lottato contro mille avversità  rimanendo tuttavia, sempre  ridente e mai malinconica.
La frisedda è tutto questo: cibo allegro, rustico ma genuino,  semplice ma nobile, perché racchiude in se un valore simbolico e affettivo che va oltre il significato meramente nutritivo e gastronomico.
Essa racconta la fatica  e suscita nostalgia, non per  l’atavico languore della fame pre e post bellica, ma per il rapporto degli uomini con la natura, che col tempo è diventato sempre più superficiale.
Una nostalgia per il filo diretto  uomo-terra-cibo,  e tra lavoro, cibo e  festa - dopo tanto, duro lavoro arrivava il momento tanto atteso del raccolto, un momento sempre di lavoro e fatica, ma che era sempre motivo di festeggiamenti. Feste che ripagavano gli uomini del lavoro di un anno intero, ma che in qualche modo  perpetuavano i riti pagani di ringraziamento alle forze della natura,  che avevano reso possibile il miracolo. Legami che davano significati particolari a colori, profumi, sapori, aromi.
Frisedde….di grano duro, d’orzo, grandi quanto il palmo di una mano, ottime per la prima colazione, per una sana merenda,  o per una cena alternativa…..la frisedda è un eccellente stuzzichino.

Anche la frisedda nacque per caso:
...Un fornaio disattento aveva lasciato  dei panetti nel forno, più del necessario, e si biscottarono. Ma il cibo, e soprattutto il pane, non si poteva buttare. Occorreva trovare una soluzione. Il fornaio li portò a casa, aprì in due i panetti, lungo lo spessore, li sponzò, in acqua e li condì con olio, pomodori, sale…
e la sua distrazione si rivelò molto gustosa ma soprattutto utile, infatti la frisedda essendo pane biscottato, poteva conservarsi più a lungo senza fare la piluscina - ammuffire...


Le frisedde venivano conservate in capasoni e con esse i contadini risolvevano il problema del pasto, quando trascorreva l’intera giornata nei campi. Ma bisogna anche dire che la nostra amata frisedda ha ascendenze nobili e antenati  illustri.  Il pane degli antichi greci era la <meza> un composto non lievitato di farina d’orzo e acqua, biscottato sotto la cenere o su pietre roventi. Era un tipo di pane che si conservava bene, adatto ai lunghi viaggi per mare. Del resto i pescatori conoscono bene la bontà delle nostre cozze, accompagnate con le nostre fragranti frisedde!
La “frisedda”, sempre presente nelle estati tarantine. Giornate trascorse sulle spiaggette del lungomare, allora praticabili,  e al “pizzone”, a sud del mar piccolo, prima che costruissero il ponte.
…Tra sole, polvere  gli antichi turisti campagnoli  arrivavano sugli “scerabbà”, cantando e raggiungevano le spiagge. Arrivati, le donne  “spannevan nu ‘ghiascione tra ‘u scerabbà e due pali conficcati nella sabbia, mentre gli uomini scavavano una fossa a  rip’ de mare,  nella battigia,  e vi mettevano le bottiglie di vino e i meloni rossi e gialli,  per mantenerli freschi.
Così cominciava la festa,  tra scamunere di bambini che gridavano , uomini con le mutande lunghe e donne in camiciola bianca che arrivava al polpaccio – tutti a bagno,   aspettando di poter mangiare le parmigiane e le maccheronate tenute in caldo nei traini - e tra un bagno e una risata si spizzicavano le frisedde, “spunzate” nell’acqua di mare e condite con spicchi di pomodori san marzano.
Il tramonto raccoglieva tutti sullo stesso scerabbà, la pelle striata di salsedine e i volti avvampati dal sole e si prendeva la via del ritorno, tra canti iniziati e non finiti e i più piccoli esausti, in braccio alle loro mamme, che avevano indossato di nuovo i loro vestiti scuri…
Da noi il turismo è nato così. Stabilimenti balneari, ristoranti e pizzerie e discoteche, sono venuti dopo, tutti figli di quelle frisedde ‘nzuppate nel mare.

E parlando di friselle non si può non ricordare <L’ACQUASALE>.
Cos’era? Un’altra  pietanza povera, semplicissima e gustosa, inventata per riutilizzare al meglio il pane raffermo, o per gustare le frisedde… D’estate un vero toccasana...
Mia nonna, prendeva “nù piatte riale” ci metteva dell’olio, dei pomodori tagliati a spicchi, una cipolla rossa tagliata a fettine sottili, capperi e basilico sale e pepe e poi riempiva la coppa di acqua. Rimestava bene bene e poi ci inzuppava le fette di pane duro o le frisedde… una freschissima delizia!
Ma l'acquasale si preparava anche in inverno, naturalmente in una versione calda... anzi bollente...
si soffrigge la cipolla nell’olio, poi si aggiungono i pomodori e il peperoncino ed in fine l’acqua e il sale. Si fa bollire per un po’, giusto il  tempo di amalgamare i sapori e poi si versa in un piatto dove  ci sono i pezzettini di pane, e si condisce con una  spolverata di cacio ricotta salato ... e … ci si lecca i baffi!

Continuando il viaggio tra i freschi ricordi .......bisogna dire che in tempi lontanissimi, i contadini arrivavano dalla Porta di Lecce o di Napoli, nella piazza Grande di Taranto (la nostra Piazza Fontana, sempre cara - nonostante lo scempio) con un prodotto che andava subito a ruba:  
LA PAMPANELLA.
C’è ancora chi ricorda,  nelle strade del  borgo  l’uomo in bicicletta  che  gridava: <“ Pampanè!”>
Altri andavano sulla litoranea presso gli stabilimenti balneari, per offrire agli assetati bagnanti questa rinfrescante prelibatezza nostrana. Un’usanza scomparsa per tanti anni, perché relegata tra i ricordi che riportavano alla luce il nostro povero passato. Una povertà da molti rinnegata e considerata “da dimenticare” perchè umiliante.
Ma ultimamente ,  le nostre povere tradizioni stanno piano piano ritornando, rivalutando il nostro passato in storia,  e sulle nostre spiagge si ritorna a sentire il grido: <Pampanelle! Pampanelle fresche! Pampanelle!> 
dal venditore  che attraversa il litorale trascinando un secchio contenente le prelibate pampanelle.
Cibo esclusivamente estivo, la pampanella richiede pochi ingredienti naturali: latte di pecora, caglio una foglia di fico. La pampanella è latte cagliato, un budino di ricotta avvolto nella foglia di fico, che le conferisce il profumo.
Il suo nome deriva dal fatto che all’inizio, invece della foglia di fico si usava la foglia della vite, il pampino , appunto,  che riusciva a mantenere fresco il contenuto – scopo principale di tale trattamento.
Poi indifferentemente si usarono  anche le foglie di fico, che erano anche più grandi e avvolgenti – e ci si accorse che erano anche impregnate dell’odore di resina che conferiva alla ricotta un profumo speciale.
Un fagottino verde e bianco che riunisce, in un rimando alle antiche leggende (la lupa che allatta Romolo e Remo all’ombra di un albero di fico),  gli elementi primordiali dell’alimentazione, il latte e il fico.
Nulla di spettacolare , però fresca ,  invitante, dal sapore  delicato,  un'ottimo contrasto con il sale dell'acqua di mare e la calura estiva.
E con le pampanelle tra le bancarelle dei mercati rionali, e su alcune spiagge, tra gli ombrelloni e le sdraio, capita di vedere sotto un  ombrellone multicolor, un banchetto con una miriade di bottiglie di vari succhi e pile di bicchieri di plastica, e al centro troneggia, su una lastra di marmo, una stecca di ghiaccio secco. Unico attrezzo del mestiere “ ‘u piallett’” per tritare il ghiaccio. .. si tratta di…‘U GRATTA-GRATTE

‘U gratta-gratte era il gelato di una volta. Non perché i gelati non ci fossero, ma perché erano cose da ricchi, serviti ai banchetti dei nobili, prelibatezze riservate ai giorni di festa e alle grandi occasioni.
Anche i romani conoscevano i gelati. Plinio descrive il dolce estivo dei romani <farina leggera, vino mielato e neve>. Seneca invece descrive l’uso e l’importanza, nell’antica Roma,  delle “neviere” che descrive  come immensi sotterranei dove veniva custodita la neve caduta durante l’inverno, ricoperta di paglia, per farne buon uso all’occorrenza.
Anche nelle campagne Tarantine ogni palazzo e ogni masseria aveva una neviera, di solito alimentate dalla neve della vicina Martina Franca.
Sulla scia dei gelati  fatti con quella neve il popolo  usando il ghiaccio secco inventò ‘u gratta-gratte. Rinfrescante delizia estiva….per tanti anni dimenticata ed ora giustamente rivalutata.
Il gratta gratta, che oggi ci viene venduto in bicchieri di plastica,  andava rigorosamente servito in coppette di ostia, che regalavano un piacere aggiunto ... quando il ghiaccio cominciava a sciogliersi la coppetta si ammorbidiva e quindi si poteva mangiare con lo sciroppo rimasto sul fondo... una vera chicca!  Anche il "povero" gratta gratta, come il vino di qualità richiede il giusto bicchiere!














venerdì 1 luglio 2011

Frutta di "staggione"

Ormai è staggione, quella con la doppia “g” che nell’accezione dialettale del termine, identifica proprio l’estate. Una stagione calda e ricca di frutti buoni, succosi e saporiti, che le nostre campagne  ci regalano.
Alcuni proverbi di staggione recitano:
<quanne arriven le fich ‘u melone se ve ‘mpich’> 
- i contadini sapevano bene che quando maturavano i fichi, le angurie non erano più buone, ormai troppo mature…
<So ‘ buen le fich’ le ceràse, ma ‘màr’ à ventre ci pane nò trase>
- la saggezza popolare ricordava che fichi e ciliegie, sono buoni, ma che per saziarsi ci vuole sempre il pane.
Che buoni però, fichi, fichi d'india, cirase, ciòse, nummere ........

I fichi.
Antico quanto la storia, è un elemento base dell’alimentazione dei Greci che chiamati ad un giuramento, chiamano a testimoni < le divinità, la patria, il grano, l’orzo, le vigne gli ulivi …e i fichi >
Domina la tavola dei cretesi che lo mangiano a tutte le ore e in tutte le occasioni, fresco o secco.
Si racconta che:
il Re indiano Bindusare chiese ad Atene  <…sciroppo d’uva, fichi e…un filosofo>, i primi due gli furono inviati,  insieme alla seguente risposta <…è contro la legge commerciare in filosofi >
Disprezzati per molti anni, perché considerati alimentazione povera, oggi, i fichi secchi sono una delle primizie culinarie, presenti negli scaffali delle botteghe di specialità tipiche salentine e sono vendute a peso d’oro.
Il fico era uno degli elementi base della dieta contadina, sia perché la pianta fruttifica facilmente (e in modo relativamente veloce) sui terreni aridi, tipici delle nostre zone, sia perché il frutto si può conservare senza molti problemi. Esso rappresenta un’ottima riserva energetica, sfruttabile durante i mesi invernali.
Sicuramente i vecchi contadini ricordano ancora gli arnesi utilizzati per la raccolta, che coinvolgeva l’intero nucleo familiare: “’u rocche” bastone a forma di uncino utilizzato per la raccolta dei frutti più in alto e “’u  panare”, contenitore fatto con rami e canne impagliate.
Sulle rive del mediterraneo se ne contano almeno 44 varietà, e anche le nostre campagne sono ben fornite, dai fichi dalla buccia verde come  “ le san jiuanne, le vùttate, le vèrdune, le vernèle, le tabaccose……
Ai fichi dalla buccia nera come “ le santamaria, le passùdde, le fich’ a acine de pèpe…
I frutti che maturano per primi non sono molti, ma sono più grossi e sono  chiamati "le culùmme" - fioroni.
I frutti maturati precocemente e caduti al suolo, le “carachizze”, venivano utilizzate per l’alimentazione del bestiame.
Per la conservazione era necessario seccare i fichi tramite esposizione al sole, dopo averli “spaccati”( aperti in due metà), veniva utilizzato “’u cannizze”, ossia uno strato di canne e giunchi intrecciati.
Dopo la fase di essiccazione,  i fichi potevano essere cotti  in forno e lasciati “sciolt”, oppure potevano essere “accucchiati”, ossia accoppiati, farcendoli all’interno con  con mandorle tostate, cannella e pezzi di cioccolata,  e poi cotti in forno.
Poi sia "le fich' sciolt’" che quelli “cucchiati” venivano riposti a strati in con semi di finocchio e foglie di “àlaure” -  alloro, prima di essere riposti a strati in  “capase” o “pitali”  -contenitori di terracotta smaltata – e conservati per il periodo invernale.

Le ficatindie

Camminando per le nostre campagne è facile  vedere i muretti a secco delle strade vicinali coperti da piante enormi formate da pale spinose e ricolme di grappoli di frutti colorati, verdi, gialli, rossi, viola. Una buccia colorata e ricoperta di spine, quasi a voler proteggere un frutto tra i più saporiti e succosi,  pieno di semini duri, ma digeribili – il fico d’india.

Mai nome fu più bugiardo! L’India, infatti, non c’entra nulla con questa spinosa pianta di origine Messicana. I conquistadores Spagnoli, convinti di trovarsi all’altro capo del mondo, attribuirono al turgido frutto questo nome improprio. Quando gli Spagnoli vennero nel Sud dell’Italia a dare vita al viceregno,  prodigo di fasti e di miserie, portarono con sé i semi di questa pianta che nelle nostre terre aride e sassose trovò l’habitat per crescere rigogliosa, diventando una delle piante simbolo della campagna salentina.
Ma il fico d’india non ebbe molta fortuna perché i signori non si avventuravano  tra i folti rovi spinosi. Troppa fatica!
Una storia, forse realmente accaduta, la racconta tutta sull’ostracismo di cui fu vittima il fico d’india nei tempi in cui anche il ciboera elemento di distinzione tra “cafoni” e “signori”. Si racconta che:
"un contadino delle nostre parti, nutrendo immensa ammirazione per Ferdinando II di Borbone, decise di recarsi a Napoliper regalare a sua mestà “nù panare” de frutta fresca.
Dopo tanto pensare e ripensare, decise di portare al Re “le ficatindie”, la moglie gli disse che non era frutta da portare a un sovrano e gli consigliò di portare mele cotogne, per fare bella figura.
Il contadino non l’ascoltò e di buon’ora si mise in viaggio ”cu nù panàre de fica tigne”.
Arrivato a Napoli, prima di giungere nei pressi del palazzo reale, con u n affilatissimo coltello si mise a sbucciare  i frutti; completata l’operazione chiese alle guardie di essere portato dal Re per offrirgli il suo devoto omaggio. Le guardie lo ascoltarono, si guardarono ammiccanti e cominciarono a prenderlo in giro, ma quando si accorsero che il contadino portava anche un coltello, pensarono che volesse attentare alla vita del Re,  lo arrestarono e lo misero ai ceppi; ma quando il fatto giunse alle orecchie del Re, questi  ordinò che venisse portato alla sua presenza. Tremante e encora con la sporta in mano, il poveretto comparve davacominciò a ridereti al Re, e inginocchiandosi raccontò del faticoso viaggio che aveva affrontato e del dono che aveva voluto portargli .
Il Re scoppiò in una risata e capì che quell’uomo non era altro che stolto, perché nessuno avrebbe mai regalato ad  un sovrano dei fichi d’india e che meritava una punizione. Ordinò che il poveretto fosse portato nel cortile e che quella miserabile frutta gli venisse buttata in faccia. I soldati eseguirono l’ordine, ma mentre i polposi frutti si spappolavano sul viso del contadino, egli rideva a crepapelle, tant’è che una guardia gli chiese:<Ma tu sei tutto scemo? Sei stato punito dal Re e ridi?> e il contadino:<E come non ridere! Se avessi dato retta a mia moglie e avessi portato mele cotogne, quelle sì che mi avrebbero gonfiato la faccia!> e dimentico della punizione per  l’incompreso gesto di devozione, continuò a ridere finché l’ultimo fico non gli si spiaccicò in fronte.
"





Le Cìose.

Bello, ripararsi all'ombra di un grande gelso, durante la canicola......
e bello deliziarsi coi suoi frutti.....le cìose, appunto.

Una leggenda riguardante le origini di questo frutto, ci viene regalata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, con  un  racconto molto simile alla tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta.
Qui i protagonisti sono due giovani babilonesi, Piramo e Tisbe ...

... erano due innamorati che appartenevano a due famiglie che si odiavano a morte. Piramo e Tisbe erano ragazzi e abitavano nello stesso edificio. Una volta furono sorpresi a baciarsi e furono rinchiusi in due sgabuzzini nelle cantine del palazzo. La parete che li divideva però aveva un piccolo buco, sfuggito a tutti, da cui si sussurravano le più tenere frasi d'amore. I due progettarono un piano per fuggire, avrebbero incatenato i loro guardiani ed avrebbero sottratto loro le chiavi per uscire. La nutrice di Tisbe era una donna ingenua, ed era molto facile sottrarle le chiavi, mentre Piramo si era messo daccordo con il suo guardiano che avrebbe finto di essere stato aggredito e gli avrebbe consegnato le chiavi. I due ragazzi si dettero appuntamento nel bosco di Nini, vicino ad una fonte e a un albero di gelso dai frutti bianchi. Tisbe si libera per prima e va nel luogo dell'appuntamento. Ad un tratto vede una leonessa con la bocca insanguinata. Ella scappa, ma nello scappare perde il mantello. La leonessa vede il mantello e lo lacera con la sua bocca sporca di sangue. Quando arriva Piramo, non vede Tisbe, ma vede solo il suo mantello lacerato e sporco di sangue. Raccolse il mantello, lo baciò e si trafisse con un pugnale. Il sangue di Piramo giunse alle radici del gelso che da allora ha cambiato il colore dei frutti, facendoli diventare tutti neri. Tisbe era ancora impaurita, ma non voleva deludere Piramo, tornò nel luogo dell'appuntamento e vide il suo amato steso a terra. Piramo ebbe solo la forza di aprire gli occhi per vedere Tisbe e morì. Tisbe lo baciò, gli tolse il pugnale, se lo puntò sul seno e si tolse la vita.

Esistono tutt’oggi sia gelsi bianchi,che neri. Quelli bianchi, provenienti dall’estremo oriente si diffusero in Europa soprattutto per via della produzione della seta; le sue foglie, infatti, costituivano il cibo prediletto ed esclusivo dei bachi. Il gelso nero, invece, ha come zona d’origine il medio Oriente, e già i Romani ne conoscevano i frutti che erano apprezzati da tutti non solo da Ovidio.    

Le nùmmer’

Camminando per le strade di campagna o lungo i litorali è facile trovare delle piante immense, ricoperte di fiori bianchi e rosa e di spine “le scuèrpe” – i rovi – che ci regalano dolcissimi frutti rossi e neri, “le nùmmere – le more –
E’ una pianta che cresce nei luoghi assolati e polverosi, non gli importa di avere vicini calcinacci, desolazione e rovine,radica facilmente e per questo è poco amata dai contadini che la classificano infestante e a tal proposito  gli hannpo dedicato un detto: 

“dalle nù fazzelette e te l’acchie indre ‘u liette”.

I frutti maturano da aprile – maggio, sino a settembre – ottobre . Da questo momento le more non sono buone, perdono il sapore, si coprono di ragnatele e di muffa.  Secondo una  leggenda …
“l’11 ottobre Satana, cacciato dai cieli, precipitò in un boschetto di rovi, ed ogni anno in tal giorno il maledetto esce dall’inferno, e torna sulla terra per scagliare la sua maledizione contro il pungente cespuglio”.

Altra leggenda narra che…
“ Lucifero, sia stato scaraventato giù all’inferno, dall’Arcangelo Michele,  e per questo dal 29 settembre le more dei rovi, non dovrebbero essere mangiate perchè Lucifero per far dispetto all’Arcangelo  Michele  compie il suo satanico rituale malefico sputando sopra ai frutti che maturano in questo periodo.”

Sacro a Saturno, maltrattato dal linguaggio dei fiori che gli attribuisce l’invidia, uno dei peccati capitali, il rovo è amato dai poeti, che lo ritengono degno di adornare il regno dei cieli.
Pianta conosciuta e apprezzata anche dagli antichi Romani.
Virgilio così ne scrive: “è tempo di intessere canestri leggeri con virgulti di rovo”.
Il botanico Plinio , affermava che le foglie contuse curavano le punture di scorpione e di serpente.
Sia la pianta che i frutti, infatti, hanno proprietà depurative, diuretiche, antireumatiche e dissetanti...
…e se andando per more  ci si ferisce, per fermare il sangue, basterà  schiacciare qualche frutto e applicarlo sulla ferita, disinfetterà il graffio e lenirà il bruciore…