domenica 21 novembre 2010

Santa Cecilia, tra storia, tradizioni, folklore e ...pettole


Oggi è il 22 novembre  si festeggia Santa Cecilia.
E’ una data molto importante per Taranto, che in concomitanza con questa ricorrenza religiosa, inaugura il periodo delle festività natalizie.
Per Taranto e per i tarantini inizia  l’Avvento, in anticipo rispetto a tutti gli altri calendari  che lo fanno iniziare dell’Immacolata o di Santa Lucia.
Un insieme di suggestioni e legami con tutte le tradizioni sia religiose che pagane accomunate dalla costante presenza della musica.
All’alba del 22 novembre  i tarantini si svegliano ascoltando il "Complesso Bandistico Lemma città di Taranto" che ogni anno da il "La" alla festa di Santa Cecilia (e al periodo natalizio),  perpetuando così un’antica tradizione che si dice nasca dall’iniziativa del gruppo bandistico locale che molti anni fa decise di uscire all’alba del 22 novembre per onorare la Santa protettrice dei musicisti.
La banda percorre le vie della città suonando le famose “pastorali” scritte appositamente da maestri tarantini come Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, Domenico Colucci, Carlo Carducci e altri musicisti, ispirati dal fascino di tradizioni ben più antiche  che trovano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d'Abruzzo, che durante la transumanza scendevano nella nostra terra, con le loro greggi,  muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse -  suonavano per i vicoli della città, durante  la loro questua itinerante,  regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo.
Il cibo che i tarantini donavano ai pastori era un prodotto povero e  semplice, come loro, ma allo stesso tempo gustoso e nutriente. Erano delle frittelle di pasta di pane, le famose …pettole
Un’antica leggenda narra che:
<< Il giorno di Santa Cecilia,  una donna si alzò come di consueto, per preparare l'impasto per il pane. Mentre l'impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide i zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire i zampognari per i vicoli della città.
Quando tornò a casa si accorse che l'impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione.
Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell'olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell'olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: "Mà, come si chiaman'?"- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta "pitta") rispose: "pettel'" (ossia piccole focacce).
Non ancora soddisfatti i figli chiesero: "E 'cce sont?" - e lei vedendo che erano molto soffici rispose: "l' cuscin' du Bambinell" (i guanciali di Gesù Bambino).
Quando finì di friggere tutto l'impasto, scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli per offrire
le pettole ai zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo.>>
La realtà invece ci dice che:
le donne, per preparare le pettole, si procuravano “u luat” (piccolo panetto di pasta cresciuta, usata come lievito) - si alzavano verso le due di notte per , "trumbà” (impastare)  la pasta, operazione che richiedeva tempo e forza di braccia, perché di solito le pettole costituivano il pranzo e la cena e le dosi superavano di molto il chilo di farina, dato che dovevano sfamare famiglie numerose “cu na morr’ di figghije” ( con tanti figli).
Per questo l’impasto si preparava “int’ u limm’" (grande coppa in terracotta smaltata all'interno). Finito di impastare, si lasciava lievitare la pasta coprendo il limmu con una “manta di lana” (una coperta) in un luogo caldo, di solito vicino al camino o vicino “a fracassè” (antica cucina a legna, con caldaia), comunque al riparo da spifferi e correnti d’aria che ne rallenterebbero la fase di lievitazione, determinante per la riuscita delle pettole.
Di  stretta competenza di nonne, mamme e zie, la preparazione delle pettole, rende l’attesa della festa un momento di interessata partecipazione e avvicendamento ai fornelli.
Oggi le operazioni dei preparativi sono state semplificate dalle comodità della vita moderna, ma gli ingredienti base sono rimasti gli stessi:  

500 gr di farina 00  (oppure),
un cubetto di lievito di birra ,
un cucchiaino da caffè di sale,
acqua q.b.
olio d’oliva per friggere.

Per l’impasto si procede in questo modo:
Riscaldare l'acqua, in una coppa setacciare la farina, a centro versare un po’ d'acqua e il sale, unire il lievito di birra e scioglierlo bene, poi cominciare ad impastare ben bene tutta la farina, aggiungendo acqua, e lavorando energicamente sino ad ottenere un impasto liscio, omogeneo, appiccicoso, di consistenza quasi cremosa.  
Coprire e lasciare a riposare l'impasto per circa due ore (a volte basta anche meno), l'impasto è pronto quando è almeno raddoppiato di volume, e sulla sua superficie si sono formate delle bolle d’aria (aria incorporata durante la lavorazione dell’impasto).
Quando l'impasto è lievitato mettere sul fuoco una pentola alta con abbondante olio di oliva (le pettole devono friggere in olio profondo, altrimenti rimangono crude dentro).
Quando l’olio comincia a fumare, con le mani bagnate in acqua tiepida (per lavorare l'impasto senza appiccicarsi), prendere un pò di pasta, stringere la mano a pugno e  formare una pallina da staccare tra pollice e indice e farla cadere nell'olio.
Dato che l'operazione richiede una manualità da esperti, meglio aiutarsi con un cucchiaio! 
Appena nell'olio,  la pasta si gonfia. Quando sono dorate potete scolarle e.... Buon appetito! 
Le pettole sono molto facili da fare. Rifacendoci alla tradizione l'impasto è molto semplice e simile a quello del pane, ma ci sono piccoli segreti.
Mia nonna nell'impasto usava della semola rimacinata , per cui le dosi precedenti diventano:
300 gr di farina 00  e  200 gr di semola rimacinata  (in tutto sempre 500gr di farina) -
e per impastare usava dell'acqua tiepida, per agevolare la lievitazione.
La morbidezza delle pettole deve essere ottenuta da:
- una lavorazione energica, sollevando e sbattendo l’impasto con le mani più volte dal fondo della    ciotola. In questo modo si riesce ad incorporare più aria possibile, così da avere poi pettole soffici.
- un impasto omogeneo e fluido.   (Attenzione non liquido)
- una lievitazione lenta e lunga.

Le pettole sono buone al naturale, ma si possono gustare anche in versione salata e dolce.
La versione salata prevede la loro farcitura: prima di friggerle, inserendo nella pallina di pasta,
di pezzi di baccalà fritto, filetti di acciughe salate, cozze crude sgocciolate, pezzetti di parmigiano (le mie preferite), pezzi di cavolo lesso, olive, prosciutto  e con tutto ciò che ci suggerisce la nostra golosità e la nostra fantasia mangereccia.....
Per gustarle dolci,  basterà passarle nello zucchero, nel miele o nel vincotto.
Una versione moderna,  è quella di spalmarci dentro della nutella, chiuderle e cospargerle di zucchero.....paradisiache – anzi sò tropp’ cannarut’(sono golosissime) e p’ l’ cannarut (per i golosi).
L’importante è mangiarle caldissime e possibilmente davanti ai fornelli e alla pentola sfrigolante,
bruciandosi le dita e scottandosi la lingua, sennò che gusto c’è?!

La forza di questa tradizione fa sì che - nonostante il delirio consumistico della vita moderna – il perpetuarsi di queste usanze, rende sempre vivo il legame col passato, e  le festività Natalizie più ricche di significato…
….Da tempi lontani i tarantini il 22 novembre, si svegliano a notte fonda per preparare le pettole da mangiare all’alba ancora bollenti,  chiudendo gli occhi e ascoltando le note della banda… per colmare il cuore e rinfrancare lo spirito…
Piccoli gesti…grandi ricordi ...ed è già festa.

giovedì 11 novembre 2010

SamMartine...

A SamMartìne ogni mùst’ è vìne, a SanNicola d’ogni vòtte si fàsce ‘a prova, d’a ‘Maculàte ogni vòtte vò travasàte
A San Martino (11 nov) ogni mosto è vino, a San Nicola (6 dic.) di ogni botte si fa la prova, all’Immacolata (8 dic) ogni botte deve essere imbottigliata). Tre date del periodo autunnale, che per i contadini scandiscono la “maturazione” e  la bontà del vino.

Oggi 11 novembre si festeggia San Martino, patrono del vino dei vignaioli e degli ubriachi …. infatti una leggenda racconta che:
San Martino era un grande estimatore del nettare di Bacco e spesso e volentieri si ubriacava.
Una sera d'inverno faceva molto freddo e San Martino lasciò a casa la moglie incinta per andare in una cantina dove si ubriacò.
Mentre egli tornava a casa, decise che per non dare fastidio alla moglie avrebbe dormito in cantina. Entrò giù nella sua cantina e si accovacciò in una nicchia scavata dentro il muro proprio dietro una grande botte., ma a causa del freddo, la notte morì!
Arrivato in Paradiso, Dio vedendo che lui era morto per non fare del male alla moglie, lo fece santo.
La moglie lo aspettò invano, di lui non ebbe più notizie.
Ma da quel giorno si accorse che  da quella grande botte che lei teneva in cantina, più vino toglieva e più ne ritrovava. La notizia si propagò a persino il Prete lo seppe e andò a casa della vedova  per vedere quel miracolo,  osservò bene la botte e si accorse del corpo del santo dentro la nicchia e vide che dalla sua bocca era spuntata una vite e questa vite era entrata dentro la botte. Da questo ramo cresceva continuamente l’uva e diventava vino.
Il Parroco decretò il miracolo e su quella cantina vi costruirono una Chiesa.

Ecco perché L’11 novembre si assaggia il vino novello accompagnato dai nostri piatti tipici.

<< Dice a scalère: Sciàmele a vvedere!
Dice a sckarole: E sciàmene de bbon'ore!
Dice l'àcce: Ce bbedde vine sacce!
Dice ‘u diavulicchie: ‘ngè vo' nu quint’ e n’anticchie!
Dice ‘u fenùcchie: ‘Bbìve  cucchie!
Dice ‘u rafanijdde: Nu picche a mme ca so' ppuverijdde!
Dice ‘a bbastunàche: Sciàmene mo' ca sìme tutte 'mbriache!! >>
Ossia:
Dice il cardo: andiamo a vedere (il vino novello - perchè di solito in questo periodo si possono gustare anche i cardi)
dice la scarola: andiamoci presto (la scarola invece sta per finire, allora incita a sbrigarsi)
dice il sedano: io conosco solo il vino buono (esalta il sapore del vino)
dice il finocchio: bevimi insieme (perchè il suo sapore rende gradevole anche "'u vine spùnte" - aspro e acido, quasi aceto)
dice il ravanello: un pò anche a me che sono poverello (un ortaggio povero, che si accompagna bene col vino perchè piccante)
dice la carota: andiamocene che siamo tutti ubriachi. )
...scalère (cardi), sckarola (scarola), àcce (sedano), fenùcchie (finocchi), rafanìdde (ravanelli), bbastunàche (carote)… ortaggi chiamati spingitoria, perché accompagnavano molto bene il vino, ma lo spingitore per eccellenza era  ‘u  diavulicchie asckuante (il peperoncino piccante).
La spingitoria era molto usata nelle “putée" di una volta, dove non mancano neanche ceci e fave arrostite, lupini, noci, “castagne d’u prevete” , insomma tutto ciò che stimola la sete e assorbe l’alcool.
Non a caso, sui banconi delle putée non mancavano mai le uova sode che attenuano gli effetti del vino,  e le sarde salate che stimolano la sete, come dire,  il male e la medicina, il veleno e il suo antidoto.
Le putée erano cantine, osterie  casereccie, che offrivano anche da mangiare piatti stuzzicanti e veloci, una sorta di primitivo fast food. Nelle putée era già tutto pronto al momento dell’ordinazione, non  servivano  la pasta, mentre si potevano trovare  “le cicureddhe de campàgna ‘a minestra”   o  “fav’ e fogghie ‘ncrapiate”, “patèddhe”  al sugo piccante, “cuzzeddhe” olio aglio e menta, ma il piatto forte erano “a’ sazìzze” e  “le pizzett’ de cavàdde” –  il  gulash dei nostri (bis) nonni, che dopo le dure giornate di lavoro, usavano  passare qualche ora in compagnia nella putée.
Ma non si andava alla putéa per mangiare ma per bere, il mangiare serviva “a cummà ‘u stommeche” (riempire lo stomaco)  per poter appoggiare il vino. Il cibo era funzionale alla degustazione del vino. Un vero e proprio rito, che richiede armonia, amicizia, allegria  e soprattutto non va consumato in piedi, e la putéa diventa un ideale luogo di sosta e di ritrovo.
La vita per i “putiàre” (gestori delle putée), non era facile. Dovevano alzarsi prima dell’alba e preparare tutto, perché spesso i clienti si fermavano prima di andare a lavorare, e per  i pescatori, i contadini,  i muratori, la giornata inizia molto presto, e visto il duro lavoro, chi poteva si permetteva il lusso di cominciare la giornata con “ nu pezzètte, nà fressèdd’ e mienze quinte” (mezzo quinto = misura che corrispondeva a cento grammi – l’equivalente di un bicchiere di vino).
Per molte persone sole, scapoli, anziani, la putéa era anche il luogo per assicurarsi un pasto  con poche lire, infatti l’euforia per questi locali, a parte il fascino goliardico,  nasceva anche dalla modestia dei prezzi.
Per questo l’avvento della ricevuta fiscale ha contribuito a far sparire le putée… come si fa a  rilasciare una ricevuta fiscale per  un mezzo quinto?
Alcune  si sono trasformate  in osterie, trattorie, e qualcuno ha osato anche dippiù…
Resiste ancora qualche “furnjiedde”  ossia i retrobottega dei macellai, famosi più che per il bere per quello che viene chiamato “l’uacizz” (gozzoviglia), ossia lo spirito di andare con gli amici a ‘u furnjiedde dove venivano serviti agnello e capretto arrostiti, “gnummariddi” (involtini di interiora di ovini), “ a’ capùzze” (testine di agnello)  sempre alla brace.
Ma “uacizz” era prima di tutto una liberazione dagli affanni giornalieri, lasciandosi andare al piacere della conversazione, mangiando senza tovaglie, né piatti,  né posate, ma prendendo e mangiando i pezzi di arrosto con le mani,  secondo l’antica consuetudine dei nostri antenati greci e romani.

Oltre i locali che si sono trasformati, ci sono locali che nascono ex novo sul modello culinario delle vecchie putée, e non per un adattamento strutturale ma per un trend. Ci sono fast food che invece di guardare ai modelli americani si sono ispirati a quello delle putée, riproponendo piatti e sapori tipici a difesa di un’identità che va difesa anche a tavola.
Ma  San Martino è anche il protettore dei “cornuti”...
Una leggenda vuole che:
Martino era gelosissimo, anche di sua sorella. Era così geloso che per evitare che qualcuno approfittasse dell’ ingenuità della fanciulla, preferiva portarsela sulle spalle. Ma un giorno la ragazza adducendo l’impellenza di un bisogno fisiologico, scese dalle spalle di Martino e andò dietro un cespuglio dove l’aspettava il suo fidanzato. Quando ritornò Martino nel prenderla sulle spalle si accorse che era diventata più pesante e capì che la sorella era riuscita a sfuggire al suo controllo ed era rimasta incinta.

Quindi San Martino inconsapevolmente tradito dalla sorella, diventa simbolo di tutti i mariti ignari dei tradimenti delle mogli.